Il portavoce della polizia israeliana, Mickey Rosenfeld, li ha chiamati lunedì scorso “giovani gangster”. Sono stati arrestati con l’obiettivo di riportare la pace nel quartiere di Silwan, sobborgo di Gerusalemme. Obiettivo naturalmente raggiunto, almeno secondo le parole di Rosenfeld. Credo che non ci sia compito più ingrato per un ufficiale della polizia che dover mentire.
La calma a Silwan non è tornata né in strada né nell’animo della gente, ed in verità quella calma ormai manca da molti mesi. Né d’altra parte lo stesso Rosenfeld potrà ignorare una domanda, tornando nella sua casa: come mai bambini di otto o dodici anni scendono in strada, armati di sassi, contro i coloni ebrei e anche contro noi poliziotti?
Lasciamo perdere l’indottrinamento islamico, che alimenta l’odio. Questa spiegazione vale per ogni stagione e la si dà in pasto ai giornalisti e ai politici occidentali che vengono di passaggio a Gerusalemme. Qual è invece la vera causa? Cosa sta succedendo a Gerusalemme? Una nuova intifada?
Neppure questa spiegazione “politica” appare convincente. L’intifada, la prima e la seconda, fatta di pietre, sangue, feriti e morti è nata in modo spontaneo, ma è proseguita per la spinta dalle organizzazioni. Questa volta, Rosenfeld lo sa, di organizzato c’è ben poco. Allora?
Forse è l’indifferenza. Sì, potrebbe essere l’indifferenza, la vera causa. Quel disinteresse per il vivere quotidiano dei bambini e dei genitori di Silwan. E forse anche di Shuafat, di Betlemme, di Hebron, di Tuwani. Disinteresse degli europei, degli americani, ed anche, diciamo la verità, degli israeliani. Se un bambino sente in casa che lo sfratto è dietro l’angolo. Se il parco archeologico legato agli scavi della Città di Davide, dovrà sorgere proprio a Silwan dove adesso c’è la sua casa. Cosa penserà quel bambino: che il mondo è ingiusto. Se la sua casa è a rischio, ma sulla collina vicina sventola ora una bandiera israeliana portata dai coloni ebrei, che riflessione farà quel bambino: che ci sono due pesi e due misure.
A qualche centinaia di metri la cronaca si ripete. A Sheik Jarrah la famiglia al-Kurd ha dovuto fare le valige: scaduto il contratto, subentrano i coloni ebrei carichi di soldi, che hanno il profumo dei dollari americani. E con la famiglia al-Kurd, altre famiglie palestinesi. E proprio lì, a Sheik Jarrah, gli avvocati dei coloni portano carte dove c’è scritto che lì decenni prima c’erano degli ebrei. I pacifisti israeliani con lo scrittore Grossman in testa, ogni sabato, vanno a protestare contro i coloni e con quella che loro definiscono la pulizia etnica portata avanti dai coloni.
La Corte di Gerusalemme, però, dà ora ragione ai coloni. Cosa dovranno pensare i bambini palestinesi di Sheik Jarrah o di Silwan, che stanno a guardare, dall’alto di una collinetta, i pacifisti israeliani e la polizia che li sorveglia: che i buoni vengono sconfitti e che per loro verrà molto presto il tempo di fare le valigie, ed in quel momento non ci sarà neppure un fotografo o un signore con la telecamera a riprendere.
E poi c’è la storia del venerdì. Ormai, quasi tutte le settimane, gli uomini palestinesi devono avere più di cinquant’anni per salire alla spianata delle moschee. Ragioni di sicurezza dice la polizia. Qualche anno fa si fermavamo a 35, poi 40, quindi 45, oggi 50. La mamma o la sorella, perché donne, possono passare. Che penserà quel bambino palestinese di Gerusalemme: io sto con mio padre che prega in strada.
Al soldato israeliano che chiede “dove vai?” a mio figlio che ha undici anni, solo perché lo ha sentito parlare arabo e non in italiano, cosa io, padre, dovrei chiedere. Tutti i bambini arabi, ti hanno insegnato alla scuola militare, sono forse pericolosi?
Sì, credo sia la nostra indifferenza la causa della rabbia che esplode nei bambini. Quella rabbia che fa intuire l’incertezza del vivere e l’ineguaglianza, la paura e l’angoscia per il destino della propria famiglia. Chi se ne farà carico? Rosenfeld, a modo suo, lo ha fatto: li ha chiamati babygangster e non terroristi. A Roma e a Milano potremmo fare molto di più.