Il Parlamento europeo ha approvato mercoledì scorso la nuova direttiva contro i ritardi di pagamento. Queste nuove regole, fortemente volute dal mondo imprenditoriale, promettono di rivoluzionare l’operato delle pubbliche amministrazioni europee e di avere un importante effetto anticiclico particolarmente in favore delle Pmi.
Le pubbliche amministrazioni degli Stati dovranno liquidare i propri fornitori entro un termine massimo di 30 giorni, prorogabile fino a 60 per il settore sanitario. In caso di ritardato pagamento, una penalità, equivalente a un interesse legale dell’8%, sarà applicata automaticamente sull’importo dovuto.
Termini più stringenti sono previsti anche per il settore privato. Per i contratti stipulati tra imprese, infatti, l’Ue accorda un termine di pagamento di 60 giorni, salvo “diversi accordi tra le parti”, che non risultino “iniqui nei confronti del creditore”. In tal senso, l’articolo 6 della direttiva definisce i criteri che il giudice nazionale dovrà adottare per definire l’iniquità di un “termine o prassi” contrattuale, tra cui il versamento degli interessi, che dovrà essere automatico e non più richiesto dal creditore.
Un recente studio della svedese Intrum Justitia, infatti, ha messo in luce come in Europa molte attività imprenditoriali, siano letteralmente “paralizzate” dai debiti o dai ritardati pagamenti. Secondo l’European Payment Index (Indice di Rischio sui Pagamenti in Europa), calcolato sulla base dei dati raccolti su 6000 aziende, la mancata corresponsione dei pagamenti continua ad aumentare vorticosamente. A ciò si aggiungono le notevoli differenze tra gli Stati membri in materia di termini di pagamento, che influiscono negativamente sul corretto funzionamento del mercato interno, pregiudicando le attività transfrontaliere delle imprese.
Sempre secondo Intrum Justitia, infatti, esiste un grave divario tra due aree dell’Europa, composte, da una parte, dai paesi cosiddetti “virtuosi” (Nord Europa) e, dall’altra, dai paesi a rischio, tra i quali Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Polonia, Repubblica Ceca e Lituania.
Per quanto concerne l’Italia, se consideriamo che nel settore pubblico italiano i pagamenti vengono saldati mediamente in 130 giorni (il doppio della media europea!), gli effetti della nuova direttiva potrebbero risultare una vera e propria rivoluzione copernicana per l’amministrazione pubblica italiana. Stando a stime di Confindustria, infatti, i crediti delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni oscillano dai 30 ai 60 miliardi di euro, costando alle imprese circa 934 milioni di euro l’anno.
La situazione si aggrava drasticamente nel settore sanitario, dove, in particolare nelle regioni del Sud, i ritardi possono superare i 400 giorni. Non c’è da stupirsi, quindi, se il fallimento di un’impresa italiana su quattro è causato dal ritardato pagamento del bene prodotto o del servizio prestato.
Tre sono le cause principali, che portano l’amministrazione pubblica italiana a dominare i primi posti delle classifiche Ue dedicate ai cosiddetti bad payers. Innanzitutto, la “scarsa efficienza” di diversi settori del pubblico. In secondo luogo, la scarsa liquidità, della quale dispongono le casse delle Pa, che troppe volte “scaricano” le proprie incapacità programmatorie sulle spalle dei creditori. Infine, la terza ragione, spesso adotta quale scusante da parte delle pubbliche amministrazioni, è l’impossibilità di procedere al pagamento a causa dei vincoli imposti dal Patto di stabilità.
In realtà i ritardi nei pagamenti derivano da una sbagliata gestione dei flussi di cassa, frequentemente basata su un bilancio virtuale, che satura i limiti imposti dal Patto, accumulando previsioni di cassa senza tener conto delle spese precedenti.
Appare evidente quindi come questa direttiva, che rappresenta un’efficacissima misura anticrisi e un indubbio sostegno al sistema delle imprese italiane, soprattutto per le Pmi, è una vera sfida che da un lato può moralizzare, modernizzare e adeguare la Pubblica amministrazione italiana a quella europea dall’altro, se perduta, divaricherà il distacco del nostro paesedall’Europa con gravi conseguenze per il sistema imprenditoriale italiano costretto a muoversi nel Mercato Unico in condizioni di palese svantaggio rispetto ad altri concorrenti europei.
Per adeguarsi a questa direttiva, è necessario avviare una gestione virtuosa dei bilanci pubblici, prima della fine del periodo previsto per la fase di trasposizione. Innanzitutto, si dovrebbero individuare degli elementi di forte premialità per gli enti virtuosi, inserendo, ad esempio, i termini di pagamento tra i criteri che fanno scattare sanzioni automatiche o premialità riguardo ai limiti imposti dal Patto di stabilità.
Tra le sanzioni da applicare alle amministrazioni non rispettose dei tempi per il pagamento, non possono, inoltre, mancare quelle previste dall’articolo 17 della legge delega sul federalismo fiscale con riferimento al divieto di iscrivere in bilancio spese per attività discrezionali, fatte salve quelle afferenti al cofinanziamento per l’attuazione delle politiche comunitarie.
Se da un lato, infatti, l’Italia, anche a seguito della nuova direttiva, si troverà di fronte a un processo di rivoluzione dei conti pubblici; dall’altro, il federalismo fiscale potrebbe venirle incontro, con una stringente applicazione del Patto di convergenza, quale strumento per fare chiarezza riguardo alle effettive entità dei debiti dello stato e delle amministrazioni periferiche.
L’autonomia impositiva e la gestione impropria delle risorse potrebbe certamente favorire una più corretta e puntuale proceduradi pagamento da parte degli enti locali. Non sarà facile per i Governi adeguarsi alla direttiva entro i prossimi 2 anni, tuttavia i vantaggi saranno diffusi sia in campo economico che nell’efficacia ed efficienza della Pubblica Amministrazione, oltre che in una maggiore e consapevole responsabilizzazione della classe politica.