Venerdì mattina sento il bip bip del telefono mentre tra le mille carte sulla scrivania cerco di fare il punto della settimana caotica che spero presto di concludere. È un amico, capomissione della più grande Ong medica di stanza ad Haiti. Uno della “vecchia guardia”, un “reduce” come me: uno dei pochissimi (quattro o cinque?) che erano qui prima, durante e dopo il 12 gennaio, quel terribile spartiacque della nostra vita.



Pranziamo insieme. Sa cosa voglio sapere: è il giorno della missione di accertamento del ministero della Salute a Saint-Marc e da giorni si sussurra di epidemia. Da almeno 24 ore noi addetti ai lavori abbiamo capito di cosa si tratta. E così, finalmente, ora l’amico superinformato me lo dice. È colera. Il Governo lo confermerà entro la giornata. L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha già accertato 12 ore fa, ma vige la consegna del silenzio finché le Autorità non fanno la loro dichiarazione. E cosi si tengono le bocche cucite per rispettare le Autorità locali. Ma la realtà non cambia: precipitiamo in un nuovo incubo.



A mezzogiorno  le vittime si contano già a decine, e trattandosi delle stime ufficiali, significa che quello è solo il numero delle persone morte certamente di colera e in ospedale. Poi ci sono tutti gli altri, quelli senza nome e senza gloria di cronaca. Quanti? Impossibile dirlo. L’Istituto di epidemiologia, nel sito blindato a registrazione obbligata, dichiara già il livello 5 di gravità sulla scala di 6 livelli delle epidemie. È grave. Non conta quanti sono, ora, non è importante.

Le cose importanti sono altre. Quali? Che l’epidemia avanza rapida, per esempio. I focolai sono due: St. Marc, in Artibonite, a 100 km da Port-au-Prince, e il secondo a Mirebalais. Incriminato principale: il fiume Artibonite. In meno di 6 ore c’è già un caso a Cabaret, 30 km dalla capitale. In tarda serata di venerdì sarà segnalato un caso sospetto a Croix des Bouquets, praticamente già in città. Le cifre dei morti accertati cominciano ad essere pubblicate dal ministero: dall’ordine delle decine, i decessi passano in breve all’ordine delle centinaia. Avanza, inesorabile.
 



Le ragioni della rapidità sono la mancanza di igiene, l’acqua contaminata, l’essere una malattia sconosciuta agli haitiani, quindi nessuna resistenza da precedente immunizzazione.

Per qualche minuto nessuno dei due parla. Poi il pensiero peggiore se ne esce allo scoperto: se arriva in città, sarà una strage. Mi chiede cosa ne penso dei campi. Racconto del primo giro di sensibilizzazione fatto oggi: la gente non ne sa assolutamente nulla. I nostri agenti di terreno sono passati casa per casa nelle baraccopoli e tenda per tenda nei campi. Il messaggio standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è breve e chiaro: bere solo acqua trattata, lavarsi le mani, usare le latrine, andare in ospedale ai primi segni di diarrea. Stamattina una vecchia signora ci ha guardato col bambino al collo e ha commentato: che bello, adesso quando abbiamo la diarrea ci curate? Avrei voluto sprofondare.

Se arriva in città sarà una catastrofe, questo è certo. Non c’è acqua potabile, non a sufficienza, le latrine sono troppo poche, far da mangiare in modo igienico in un campo rifugiati è un’utopia ridicola. E sono in 800mila, nei campi. I nostri ragazzi avanzano coraggiosamente di tenda in tenda, tra rivoli di acqua putrida e fango di dubbia origine, sotto il sole dei Caraibi che non perdona neppure a ottobre; avanzano coraggiosamente col loro povero messaggio: lavatevi le mani, usate le latrine…

Ora di mezzogiorno è chiaro a tutti che se arriva, sarà una cosa terribile. Penso ai nostri bambini delle scuole in tenda, del centro di appoggio, a quelli faticosamente strappati alla malnutrizione. Li abbiamo protetti e incoraggiati per mesi, ricostruito un sorriso alla volta, ed ora? “Lavatevi le mani” di fronte ad un virus che uccide in meno di 24 ore, lavatevi le mani. Improvvisamente mi sento cadere addosso la stanchezza di questi lunghi 9 mesi. Lo dico a Stefano. Un po’ ci passa l’appetito. È stato un pranzo veloce, 20 minuti compreso pagare il conto, ed è già un lusso. Non ci saranno altri pranzi seduti, né momenti di relax per parecchio tempo.

 

Di nuovo siamo in emergenza. Abbraccio rapida l’amico mentre le macchine e i rispettivi autisti già ci aspettano sul piazzale col motore acceso. “Abbi cura di te, se puoi, fai attenzione”, le solite raccomandazioni. Sappiamo che non ci rivedremo per settimane, almeno finché la crisi sarà passata, e non sappiamo quante ferite lascerà in ciascuno. Ma sappiamo anche che il peggio non è per noi, non sarà per noi. La città è una polveriera e il colera è una bomba a orologeria.

Nel pomeriggio finalmente esce il comunicato stampa del ministero. È ufficiale, è colera. Il silenzio è rotto, ora si può parlarne, si può agire. Cominciamo con le scorte di antibiotici, poi con le casse di acqua, poi le taniche, poi il cloro, è una lotta contro il tempo, svuotare magazzini, contare, prevedere, moltiplicare.

Poche istruzioni chiare, nella prima riunione logistica ci dividiamo i compiti: le infermiere ai posti di depistaggio a bordo campo, i logisti a montare le tende per l’isolamento, tutti gli altri a volantinare. A me toccano le riunioni. OMS, poi ministero della Salute, cluster acqua, cellula di crisi. Affiggo la mappa coi siti sanitari di isolamento, guardo sulla carta la strada che scende da St. Marc verso la capitale, strada da cui arriverà il contagio. Perche arriverà, ormai è chiaro che arriverà. È solo questione di ore.

I ragazzi sono rientrati dal terreno, le facce serie. Non serve dire nulla, hanno già capito. Ci aspettano tempi duri. Ricevo le prime telefonate di amici: partono, hanno figli piccoli, non vale la pena rischiare. Hanno ragione. Ci salutiamo per telefono: arrivederci a gennaio… L’équipe Avsi invece è granitica, nessun tentennamento, restiamo tutti. Solo Laura anticipa la partenza: dovrebbe rientrare comunque a fine mese e non vale la pena rischiare di restare bloccati qui.

Chiudo l’ufficio alle otto passate. La giornata è stata lunga e faticosa e so bene che è solo l’inizio.
Mi sento come in una città assediata che attende l’arrivo del nemico. Eppure la gente ignara continua a fare la vita di ogni giorno nel frenetico via vai delle prime ore di buio. Guardo questa moltitudine brulicante e mi chiedo se ce la faremo. Ma non sono troppo fiduciosa.

Arrivo a casa, preparo la borraccia d’acqua per domani, lo zaino, le scarpe, la carta dei siti sanitari, la lista dei numeri di urgenza. Non prendo i guanti in lattice e la mascherina, per scaramanzia. Speriamo non tocchi subito a noi… Domani è il giorno della verità, si saprà se il cordone sanitario ha funzionato o se il contagio è arrivato in città. Vado a letto oppressa, ma serena. È il nostro lavoro, la gente ci aspetta, faremo ciò che possiamo.