Come si sviluppa, nella vita quotidiana – in Egitto – la convivenza della comunità cristiana con l’Islam, quali sono le maggiori difficoltà che i cattolici incontrano e a che punto siamo con la libertà di professare la fede? Lo abbiamo chiesto a Mons. Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti (tra i cardinali che saranno creati nel prossimo Concistoro del 20 novembre). Il quale, tra le altre cose, ha commentato le recenti accuse di Israele al Vaticano in seguito al Sinodo sul Medio oriente, a cui il Patriarca ha partecipato.



Quali sono le maggiori difficoltà che la sua Chiesa si trova ad affrontare?

La più grande consiste nell’assicurare una formazione solida ai nostri fedeli cattolici. Una formazione illuminata e aperta verso il dialogo, verso la collaborazione nell’impegno reale e positivo nella costruzione della nostra società. E’ il compito più difficile.



Cosa può dire della convivenza e del dialogo con i musulmani nel suo Paese? In Occidente sembra sempre esposto al rischio e alla pratica della violenza: è così?

Le faccio un esempio molto semplice. Nell’Assemblea sinodale eravamo 250. Tutti i giorni c’erano decine di interventi, scritti e orali, e discussioni nei circoli minori linguistici. Tutto ciò è stato dominato da toni positivi e propositivi. E’ successo che uno dei padri sinodali abbia consegnato un suo intervento scritto in cui suggeriva semplicemente che, tra le altre cose, nell’ambito del dialogo, si affrontassero anche quegli elementi che nei cristiani creano sconforto. Come i versetti del Corano che parlano di violenza. Queste sono state le uniche parole riprese dalla stampa. In Italia, in Libano, in Egitto e altrove.



Vuol dire che le violenze sono amplificate dai media?

 
Un solo episodio clamoroso viene presentato come ordinario. Nella nostra convivenza possono esserci piccoli conflitti tra conoscenti, amici, colleghi. In genere, tuttavia, sono di natura personale. Se questi capitano tra un cristiano e un islamico, immediatamente vengono dipinti come scontri interreligiosi. L’acuirsi di tale percezione, all’interno della nostra comunità, a volte fa sì che il conflitto si estenda. E, in effetti, è capitato che in tali episodi ci fossero dei feriti o dei morti. Da una parte, e dall’altra. Dipende dalla reazione dei vari gruppi di appartenenza e, spesso, dall’intervento delle autorità.

Qual è, quindi, la reale situazione dei cristiani in Egitto?

I cristiani di tutte le confessioni rappresentano un minoranza di 10 milioni di persone su 82. I cattolici sono 250mila. Tutti insieme viviamo mescolati ai musulmani: non ci sono quartieri, villaggi o città unicamente cristiani o musulmani. E’ da 14 secoli che viviamo così. Nella vita concreta, poi, ci sono possibilità per tutti. Nel commercio, ad esempio, non sono imposte restrizioni, così come l’insegnamento è aperto a chiunque.

Per quanto riguarda invece la garanzia di professarsi liberamente cristiani?

 
Bisogna distinguere tra libertà di culto e libertà di religione. Nel primo caso non ci sono particolari problemi. Per costruire una chiesa, ad esempio, la soluzione passa attraverso i contatti con i responsabili. Certo, bisogna avere pazienza, aspettare del tempo, seguire i passaggi burocratici. Ma alla fine il permesso arriva. La pratica religiosa, nelle nostre chiese, non è ostacolata e le nostre scuole cattoliche sono molto apprezzate.

E sulla libertà di religione?

La scelta della propria religione, senza costrizioni, è più difficile. Anche se non c’è una legge, e la Costituzione garantisce libertà in questo senso, secondo la mentalità pratica e la visione religiosa dei musulmani, non esiste il diritto a passare ad un’altra religione. 

 

In cosa consiste, quindi, per un cristiano egiziano la base del dialogo con le altre religioni?

 

Nel “dialogo della vita”, come siamo soliti chiamarlo. Significa testimoniare la propria fede vivendo autenticamente i principi del Vangelo, nel rispetto dell’altro e nel perdono. Cooperando positivamente alla costruzione del Paese. Si tratta del concetto di presenza cristiana. Che era anche il tema principale del Sinodo.

Cosa intende?

 
Il significato della nostra presenza in Egitto non si può relegare a storia morta o reperto archeologico. Risiede, anzitutto, nel continuare e perpetrare la missione di Cristo Redentore nel nostro Paese. Anche perché è iniziata proprio lì la Storia sacra… In secondo luogo, è legata al nostro ruolo di “pacificatori”. Abbiamo il compito di educare al senso dell’accettazione, del rispetto dell’altro e dalla reciprocità. Che, poi, non sono altro che i valori evangelici.

 

Nel Concistoro del 20 novembre sarà creato cardinale. Cosa cambierà nella sua responsabilità del governo della Chiesa?

Sono chiamato a partecipare più da vicino al servizio del Sommo Pontefice nella costruzione del dialogo, della comunione e dell’unità con le altre chiese. A partire dalle diverse confessioni cristiane del mio Paese e dal rapporto con le altre religioni.

 

Il vice ministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon, ha lanciato un durissimo attacco al Sinodo sul Medio Oriente: “È stato preso in ostaggio da una maggioranza anti-israeliana”. Le risulta?

E’ stata data un’interpretazione politica. Il Sinodo ha richiamato la situazione dolorosa e ingiusta in cui vive da anni la popolazione palestinese. Che ha creato destabilizzazione in tutta la regione. Noi, come tutti, abbiamo invitato ad una soluzione giusta. Che ascolti le esigenze del popolo palestinese. Anzitutto quella di avere un territorio in cui vivere pacificamente. Non credo questa sia una presa di posizione contraria allo stato di Israele. E’ semplicemente un appello a trovare una soluzione. Quella dei due Stati.

 

(Paolo Nessi)