C’è qualcosa di allarmante a proposito dei fratelli Miliband e del fatto che gli sia stato concesso di affrontarsi per il controllo del Partito Laburista inglese. Qualcosa come il brivido che si sentì un paio di anni fa, quando si intravide la possibilità, se Hillary Clinton avesse battuto Obama alle primarie, che i presidenti degli Stati Uniti, nell’arco di 28 anni, provenissero da due sole famiglie. Potendo scegliere all’incirca tra cento milioni di famiglie, la cosa sarebbe stata un po’ malsana.



È difficile sottrarsi all’impressione che i Miliband siano assurti alle loro attuali posizioni non malgrado il fatto che siano fratelli, ma proprio per questo e per le loro comuni origini. Nonostante i baci e abbracci del week-end, la loro rivalità sembra ben profonda e son bastate alcune ore perché venisse alla luce nel significativo richiamo di David a Harriet Harman (leader ad interim del Labour Party). Miliband ha avuto perfettamente ragione nel sottolineare che la Harman, applaudendo le critiche del fratello alle iniziative di Blair per l’Iraq, stava negando le responsabilità assunte a suo tempo.



Questo episodio porta al cuore della vera differenza tra i due Miliband, che non riguarda specifici temi politici o ideologici, ma verte sulla concezione del potere e sulle modalità di esercizio dello stesso. In sintesi, David è un vero blairiano, che arriva sul finire di una generazione che ha affrontato la questione del potere con certi intenti e ideali, per poi dover accettare molte lezioni sui limiti delle proprie ricette. Un politico onesto, preparato a portare il peso delle responsabilità prese, che si ritrova non più al passo con il proprio tempo. Perciò, il suo ritirarsi tra i banchi dei deputati dice più sull’attuale periodo che non sulla sua persona.

Dal di fuori, e sulla base delle stesse sue assicurazioni, l’ascesa di Ed Miliband alla guida del Labour segna l’arrivo di una nuova generazione, ma il fatto che lo affermi cosi frequentemente potrebbe essere un segno che egli stesso sospetta che non sia proprio così.

In realtà, è stato eletto non tanto per le sue proprie qualità, ma in quanto non è David. Egli rappresenta la vendetta del movimento sindacale per i peccati del blairismo: il New labour, la Clausola Quattro (N.d.R.: clausola dello statuto del Labour Party che prevedeva le nazionalizzazioni, riferimento eliminato da Blair), Alastair Campbell (N.d.R.: ex portavoce di Blair, accusato di aver falsificato i dossier sulle armi di distruzione di massa in Iraq), e via dicendo. Si tratta di forze che, avvalendosi del confronto tra i fratelli Miliband, stanno ora prendendosi la rivincita.

Gli artefici della sua incoronazione parlano di Non-David come di un politico che “crescerà”. In altre parole, vuol dire che è stato scelto non in base alla sua visione o esperienza, ma proprio per la sua mancanza di entrambe, un foglio bianco su cui altri possono scrivere quello che vogliono. La sua leadership, con relativa retorica sulla “nuova generazione”, è essenzialmente un fenomeno reazionario e, rappresentando gli invisibili gestori del potere dell’Old Labour, finisce per attaccare chi aveva cercato di governare in accordo con la realtà come si presenta.

Il suo primo discorso da leader è stato quello di un politico determinato ad evitare conflitti con chi ha capito detenere il potere: sia i sindacati, quindi, che l’elettorato moderato di sinistra rappresentato dai lettori del Guardian, negli ultimi tempi caratterizzato per l’opposizione a Blair. Oltre che contro la guerra, abbiamo appreso che Non-David è in favore dell’”amore” e della “compassione”….

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Ma è allora veramente il momento di “una nuova generazione”?
Come è passato il tempo dal 1997, quando Blair entrava trionfalmente a Downing Street, o dal 1993, dall’arrivo di Clinton alla Casa Bianca! Sembra difficile che si possa ora dire che è giunto di nuovo il momento per parlare di una nuova generazione di politici.

Clinton e Blair arrivarono al potere invocando un tipo di idealismo basato su una visione profondamente moralista e, ad essere sinceri, ingenua del potere. Fatta fuori la vecchia guardia, promisero che tutto sarebbe cambiato per il meglio e per sempre. Entrambi finirono in un’idea hollywoodiana della politica, dove si parlava di lotta e cambiamento, di un mondo che poi sarebbe vissuto sempre felice. A sua volta, questo era una corruzione del linguaggio cristiano, in cui la possibilità di cambiamento avviene nel contesto totale dell’uomo. 

Prima, all’inizio degli anni ’60, ci fu John Fitzgerald Kennedy, poi suo fratello Bobby, alla fine del decennio. Ci fu bisogno di un quarto di secolo prima dell’arrivo di Bill Clinton; quasi subito dopo, emerse Blair come prossimo leader del Partito Laburista inglese.     

Tony Blair e Bill Clinton erano maestri nel manipolare l’ottimismo della loro generazione, i baby-boomers del dopoguerra che, arrivati coccolati all’età adulta, erano decisi a ripulire la politica mondiale dal pragmatismo e dall’egoismo, sostituendoli con la pace, l’amore e la comprensione. Entrambi hanno imparato, tuttavia, che il potere non è sempre riconducibile a un idealismo allo stato puro, che la politica è talvolta la scelta del male minore. Entrambi hanno provocato delusione nella loro generazione: Clinton perché non ha saputo tener su i pantaloni, Blair perché ha rifiutato di sottrarsi alla responsabilità di fronte a una tirannia.

La politica moderna continua a giocare con l’idea di un salvatore che redimerà le nostre organizzazioni pubbliche, ripulendole dalle macchie della imperfezione umana. Blair in particolare ha finito per accorgersi che questo non era possibile e il potere ha prodotto un cambiamento della sua personalità, portandolo a essere simile a ciò che all’inizio avrebbe disprezzato. Il suo battesimo del fuoco è stato l’Iraq, da cui è però uscito come un politico più coraggioso e acuto. Il suo partito e il suo elettorato hanno reagito male a questo nuovo Blair, che aveva tradito, secondo loro, gli ideali per i quali era stato eletto: partito come un Kennedy, è finito come un Nixon. Sfortunatamente per lui, il mondo non si è mostrato in sintonia con la sua crescita personale.

Alla fine, il mondo è forse in una condizione peggiore che nel periodo tra le due grandi guerre del secolo scorso, ma le nostre società non sono ancora in grado di immaginare se stesse in modo indipendente dalla generazione che portò al potere Clinton e Blair. Possiamo anche parlare di una “nuova generazione”, ma in realtà ci riferiamo ancora al semplicistico sistema di valori alla base della elezione di Clinton e Blair.

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Nonostante il disincanto dopo l’esperienza del blairismo, la Gran Bretagna è tuttora affascinata dal carisma di un Blair, che è essenzialmente un clone di Kennedy, come Clinton. 

La sua autobiografia A Journey (Un Viaggio) è un rendiconto per la generazione dei baby-boomer, in effetti un ripudio dell’utopismo degli anni ’60. Per quelli che ancora non hanno capito fino in fondo, Blair emerge dal libro come un’acuta intelligenza politica che riuscì a capire la sensibilità dei suoi tempi. Egli guarda dentro il suo dono per la manipolazione, e anche ai suoi limiti, esaminando in dettaglio i dilemmi di chi è arrivato al potere pensando di poter cambiare il mondo con principi e buone intenzioni e scopre che il potere gestisce il politico tanto quanto egli gestisce il potere.

Ed Miliband è al contempo un tentativo di replicare Blair e una reazione nei suoi confronti; è anche una reazione alla prospettiva offerta dal fratello, che avrebbe potuto genuinamente rappresentare una nuova direzione, ancora aperta alle possibilità dell’idealismo ma preparata a confrontarsi con la crescente petulanza e l’infantilismo della cultura che si era vanamente offerto lui stesso di guidare.

David Cameron si può definire un surrogato di Blair, il tentativo dei Tories di ricreare il marchio che ha rivoluzionato la politica britannica, da un versante di “sinistra”, come la Thatcher a suo tempo lo ha rivoluzionato da “destra”. È cioè una reazione alla reazione ed è perciò improbabile che finisca per contare molto. 

Similmente, Nick Clegg, il leader dei Liberal-Democratici e Vice Primo Ministro, rappresenta un tentativo di occupare il “mercato” di Blair, senza però avere lo spessore per portarlo altrove.

L’arrivo di Ed Miliband indica che la politica inglese è interamente dominata da gente che vuol sembrare come Blair, senza però capire cosa egli abbia realmente significato e che cosa la sua storia ci insegni effettivamente. Possiamo quindi immaginarci qualche difficile momento per il Partito Laburista britannico, quando la lezione di questi ultimi decenni verrà finalmente compresa. La saga dei Miliband ha ancora qualche episodio da mettere in scena.