È una bruttissima gatta da pelare per l’amministrazione di Barack Obama, quella costituita dall’insensato e immotivato cannoneggiamento nordcoreano di un’isola della Corea del Sud, costato la vita ad almeno quattro persone. Tutti evidentemente guardano a Pechino, la sola capitale dotata di un qualche potere di pressione non ostile sul governo della Corea del Nord, alla quale fornisce assistenza economica e risorse energetiche, e ancora legata al regime nordcoreano da un Trattato di amicizia risalente ai tempi della Guerra Fredda. Finora, però, le autorità cinesi hanno fatto e detto poco o nulla, limitandosi a un generico “rincrescimento per le vittime e i danni causati dall’incidente”, e allo scontato “invito rivolto alle parti in causa a mantenere la calma”.



Insomma, nessuna menzione esplicita del Nord Corea e, quel che è peggio, vittima e aggressore collocati sullo stesso piano. È possibile che ancora una volta Seul riesca a mantenere i nervi saldi, per quanto ciò debba essere incredibilmente difficile per un Paese che appena otto mesi fa ha visto affondare dai nordcoreani, ancora una volta senza alcun preavviso e pretesto, una torpediniera con 46 marinai a bordo.



Ma il problema è quanto a lungo gli Usa potranno andare avanti a non ottemperare agli obblighi di assistenza militare nei confronti del proprio alleato senza perdere completamente la faccia. Per quanto nessuno aspiri a veder deflagrare un conflitto nel Nordest asiatico, occorre rilevare che il senso profondo di un’alleanza non sta certo nell’invitare i membri più deboli a “porgere l’altra guancia” una volta che siano aggrediti. Al contrario, le alleanze militari vengono contratte con un duplice, coincidente scopo: dai più forti per dimostrare il proprio ruolo e il proprio prestigio proteggendo i più deboli; dai più deboli per trovare all’esterno quelle capacità difensive di cui difettano al loro interno. Per tutto il corso della Guerra Fredda, e ancora oggi, gli Usa hanno svolto in quella parte del mondo il ruolo di “riequilibratore strategico”, capace di rassicurare i Paesi partner, in primo luogo Sud Corea e Giappone, che l’America avrebbe sia impedito che la Russia o la Cina potessero diventare le potenze egemoni nella regione, sia protetto giapponesi e sudcoreani dalle azioni aggressive della Corea del Nord.



Ma se gli americani non sono in grado o non ritengono opportuno di proteggere i propri alleati, il futuro del loro rapporto con Seul e Tokyo si complica assai. Anche perché tutti sanno benissimo che se nell’incidente avessero perso la vita dei militari americani, la reazione sarebbe stata ben diversa. Certo, la Corea del Nord è una potenza nucleare (probabilmente) guidata da una dinastia di “re comunisti” tanto feroce quando psicopatica. Ma questo, se rende più complicata la strategia di azione americana, non esime Washington dal dovere di reagire. Obama può ben decidere di non mostrare eccessivamente i muscoli nell’area, ma solo a condizione di trovare una via alternativa (diplomatica) che equivalga a ottenere garanzie precise, pubbliche e verificabili che una simile azione non si ripeterà.

 

Ed è qui che entra in gioco Pechino, la quale ha in realtà le sue belle difficoltà nel gestire un partner come la “famiglia Kim”, e che aspira a che la regione resti il più possibile tranquilla, così da non disturbare i progetti di crescita economica cinese e da rassicurare tutti i vicini che l’aumento di potenza politica della Cina non costituirà una minaccia per alcuno. Ma la tentazione di lasciar rosolare Washington sulla graticola, di favorire l’erodersi delle ragioni che spingono Seul e Tokyo a continuare a ricercare la protezione americana, potrebbe fornire un’ulteriore spiegazione del prolungato silenzio cinese. In fondo, è proprio la presenza degli Usa nell’area a impedire a Pechino di poter sognare una leadership regionale ottenuta pacificamente, ma anche altrettanto incontrastata…