WIKILEAKS ITALIA – Il tema dell’equilibrio tra il diritto della persona di essere informata su quanto avviene nel mondo, in primo luogo nei palazzi del potere pubblico ed il diritto alla riservatezza di alcune informazioni ha sempre oscillato tra alti e bassi con relazioni tra i media ed i Governi fatti di reciproca aggressività e complicità, un’attrazione fatale che fa parte della storia dell’opinione pubblica. Nel caso delle rivelazioni illegali di Wikileaks, perché di segreti d’ufficio diffusi illegalmente si tratta, colpiscono due novità, la dimensione delle rivelazioni, 250mila messaggi diplomatici scritti tra il 2003 ed il 2008, e la tecnica con cui Julian Assange, il responsabile di Wikileaks ed alcuni grandi quotidiani mondiali hanno proceduto alla loro diffusione.



Al centro di questa ondata di storie riservate pubblicizzate con ripercussioni ancora non calcolabili, c’è la rivoluzione digitale e la Rete globale ma anche una inedita alleanza con i media tradizionali, il New York Times, Il Guardian e Der Spiegel, classici giganti di un mondo di carta di cui si continua a predicare la prossima estinzione, che hanno fatto da sponda alla pubblicazione dei messaggi americani sul sito di Assange.
 
La documentazione, rubata da un soldato americano in servizio in Iraq ed ora in carcere in attesa di giudizio, ha fatto rapidamente il giro del mondo perché scaricabile e comprimibile in una “penna” dalle dimensioni  di un accendino. I messaggi e-mail dei diplomatici di Washington prima di finire in rete sono stati esaminati da gruppi di giornalisti competenti e specializzati, valutati con alcuni parametri particolari, e sottoposti alla verifica delle autorità americane prima di mandarli in tipografia ed in rete.
 
Insomma la funzione  di Internet non ha potuto dispiegare la sua potenza massima senza l’intervento dell’uomo, della sua responsabilità e competenza.
In che modo? Basta leggere cosa ha scritto Simon Jenkins, il giornalista del Guardian che ha guidato l’”operazione Wikileaks” per il suo giornale per capire che Julian Assange ha certamente utilizzato i grandi giornali come cassa di risonanza, ma che questi ultimi, ovviamente attenti ai loro interessi editoriali, non si sono fatti strumentalizzare ciecamente, ben sapendo che comunque le informazioni sarebbero state diffuse.



 

Racconta Jenkins che una volta ricevuti i "files" li ha catalogati secondo un principio molto severo: non sarebbe stato pubblicato nessun documento con nomi o indicazioni di persone in stato di pericolo di vita, sia in zone di guerra che in zone di pace e non sarebbe uscito sul giornale nessun riferimento ad operazioni militari in corso per evitare conseguenze relative alla sicurezza nazionale dei paesi interessati,ed infine  non sarebbero state rivelate fonti riservate. I risultati di questi raffronti sono stati fatti circolare tra i media interessati, incluso il sito Wikileaks, per stabilire standard comuni di comportamento
 
Jenkins aggiunge che  i casi controversi sono stati sottoposti all’esame delle autorità americane, Dipartimento di Stato e Pentagono, con cui è stato intrecciato un colloquio pragmatico e continuato. Il New York Times, anche se con toni più sfumati, racconta  ai suoi lettori  la stessa procedura e spiega il suo atteggiamento con le stesse motivazioni, sottolineando che i "files" di Assange, una volta verificata  la loro autenticità, vanno pubblicati a costo di sbugiardare la doppiezza della amministrazione statunitense e quella di alcuni  alleati degli Stati uniti.
 
E qui arriviamo al nocciolo, dal punto di vista comunicativo, dell’ultima sortita di Wikileaks che vale negli Stati Uniti, nel resto del mondo e in Italia:  esiste  sempre e comunque una responsabilità morale, di chi produce informazioni riservate e di chi diffonde e pubblica informazioni e notizie riservate, a collaborare, ognuno nel suo ruolo, in nome della serietà professionale e del rispetto dell’ opinione pubblica.