Come ha fatto Barack Obama a dissipare in due anni quel suo patrimonio carismatico, fatto di speranza, cambiamento, fiducia nel fare? Ci sono una serie di spiegazioni razionali, tra le quali aver imposto la riforma sanitaria come una priorità, contro la maggioranza dell’opinione pubblica e in un momento del tutto sbagliato: cioè quando venivano spesi 1500 miliardi di dollari per salvataggi e stimoli, senza per questo far ripartire la crescita e l’occupazione.



C’è l’abbandono del centro moderato, per non perdere contatto con l’ala liberal. C’è la debolezza nei confronti del Congresso al quale ha delegato le scelte più importanti, creando pasticci come l’assalto alla diligenza del Recovery Act, quasi 800 miliardi nei quali è entrato un po’ di tutto. Ma per capire davvero quel che sta accadendo bisogna entrare nella pancia del paese. Da lì parte quella che già chiamano “la rivoluzione di midterm”.



La perdita della camera bassa, di molti seggi al senato e almeno dieci governatori è una débacle che va ben al di là della classica sanzione degli elettori a metà mandato contro il presidente in carica. Non perché preannuncia già una sconfitta nel 2012 (non è accaduto né a Bill Clinton, né a George W. Bush), tanto meno perché si tratta di un referendum su Barack Obama. Ma perché ha dato forma politica a un profondo malessere sociale, ha portato al Congresso quella che l’Economist nell’ultimo numero chiama l’Angry America, profondamente arrabbiata, intimamente delusa, profondamente colpita dalla crisi. Qual è questa America?



Se guardiamo a quella che partecipa al movimento dei Tea Party, è composta di piccola, piccolissima borghesia che esprime una frustrazione trasformatasi in rabbia. I militanti sono per lo più wasp (white anglo-saxon protestants), di età compresa tra i 30 e i 50 anni, che abitano negli immensi sobborghi metropolitani, nel sud e nel west. Anche se i Tea Party sono ormai diffusi anche nel New York State.

Tutti i giornali più importanti d’America hanno dedicato pagine e pagine al nuovo fenomeno. Una galassia di sigle, gruppi, club, associazioni a vario livello, da quello minimo (talvolta un gruppo di amici o di vicini) a quello massimo come Americans for Prosperity e le organizzazioni finanziate dai Koch brothers, i magnati del petrolio da sempre libertari e antistatalisti, i talk show di Glenn Beck sulla Fox di Rupert Murdoch o Rick Santelli su CNBC, il primo a evocare, il 19 febbraio 2009, la rivolta del tè.

Chi parla di grandi burattinai o di fanatici manipolati dai boss repubblicani perde di vista il senso del processo: una protesta della classe media, che ha come bersaglio il ritorno invadente del Leviatano. Lo stato, si dice, ci ha salvato dalle rovine del mercato selvaggio e adesso chi ci salva dallo stato? L’intervento massiccio del governo doveva risolvere i problemi, si è rivelato esso stesso un problema, se non il cuore dei problemi presenti e futuri. Il peso del debito soffoca la ripresa e la stagnazione non crea lavoro. Le banche si sono rafforzate grazie ai soldi dei contribuenti, ma tolgono le case a quegli stessi taxpayers in difficoltà nel pagare i mutui.

         

La crisi fiscale dello stato è la causa anche del malessere che attraversa l’Europa e colpisce più i ceti medi degli altri gruppi sociali. Apparentemente, i francesi, gli spagnoli, gli italiani che scendono in piazza, sono l’opposto degli invitati ai tè americani. Questi ultimi vogliono meno stato, i primi chiedono più stato. Eppure, i dipendenti pubblici che si oppongono ai tagli, o il rifiuto di riformare le pensioni, sono tentativi nostalgici di resistere a un mondo ormai improponibile, quello che assicura protezione dalla culla alla tomba attraverso apparati pubblici finanziati con le tasse o con i debiti. Dunque, il Leviatano è il problema anche nella vecchia Europa che non solo ha bisogno di risparmiare e ridurre le garanzie, ma deve rivedere la concezione del benessere collettivo.

         

Modi d’essere, parole d’ordine, obiettivi sono diversi sulle due sponde dell’Atlantico. Ma nell’un caso e nell’altro, la chiave del futuro appare la stessa: passare dal welfare al workfare, riportare al centro del patto sociale il lavoro e non l’assistenza. Se i tre pilastri comuni ai tea party sono la riduzione dello statalismo, la libera impresa e la responsabilità individuale, ben vengano – scrive l’Economist. Anche l’Europa avrebbe bisogno di un vento liberatorio in grado di dire ai deboli e incerti governi nazionali e al farraginoso apparato di Bruxelles: il re è nudo.

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