“L’America è un paese in crisi”. Lo si sente ripetere spesso di questi tempi. Crisi economica, crisi d’identità, crisi da superpotenza invecchiata. E giù analisi sulla necessità, anche per la nostra Europa, di non guardare più a occidente ma di rivolgere invece lo sguardo a oriente, verso la Cina, a cui sembra appartenere il futuro. Tra le tante conseguenze dalle elezioni americane di Midterm, c’è la necessità di rivedere queste conclusioni: gli Usa sono vitali come sempre, forse di più, e hanno ancora molto da insegnare.



Nessun paese al mondo, e soprattutto nessun paese in crisi, sarebbe in grado di esprimere prima una novità politica assoluta come Barack Obama, con tutta la carica innovativa che si è portato dietro, e poi un’altra novità politica assoluta ma di segno opposto come i Tea Party. Il tutto nel giro di soli due anni.



C’è senz’altro una fase congiunturale di crisi in America, che sta provocando paura e malumore nel Paese soprattutto per l’assenza di segnali di ripresa e per il tasso di disoccupazione più alto di quanto la gente possa accettare. Girando in questi giorni nel Midwest, o nei paesini del West, il grido di dolore risuona dovunque. Case di proprietà finiscono alle banche, posti di lavoro evaporano, la bancarotta è diventata uno stile di vita forzato. Sbaglierebbe però chi si fermasse a leggere i risultati delle elezioni di Midterm solo come il segno di una protesta, uno sfogo della classe media contro un presidente che forse aveva promesso troppo, per quello che può ragionevolmente dare. A colpire è invece la carica di energia e di innovazione anche politica che queste elezioni in tempo di crisi sono riuscite a creare.



Si è ironizzato molto sui Tea Party e non c’è dubbio che si tratti di un movimento che ha vari aspetti folcloristici, destinati ad avere vita breve. Ma solo in America poteva coagularsi in una realtà vincente, in solo un anno e mezzo, un’ondata quasi emotiva che ha unito milioni di persone slegate dai partiti tradizionali. Gente che condivide la stessa preoccupazione per l’aumento della spesa pubblica e reclama il diritto di fare scelte a livello locale, invece di affidarle al governo federale e alla burocrazia di Washington. Senza conoscersi, entrando in contatto prima sui social network, poi in conferenza telefonica, infine di persona a marce e raduni, questa variopinta coalizione di gente comune ha messo in piedi dal niente un’intera narrativa politica, partendo come spunto dalla rivolta del tè condotta dai loro bisnonni nel XVIII secolo.

Il Tea Party ha costretto e costringerà sempre più i partiti tradizionali a cambiare, e imporrà all’amministrazione Obama compromessi con l’opposizione che forzeranno il presidente a rivedere la sua agenda. Il movimento, inoltre, ha portato a Washington una pattuglia di volti nuovi della politica, senza esperienza, che potranno rivelarsi elefanti in mezzo alla cristalleria del Capitol, ma potrebbero anche essere l’avanguardia di un’intera nuova generazione di politici, obbligando anche gli avversari democratici a ripensare alle loro scelte. Politici come il neosenatore della Florida Marco Rubio o il suo collega del Kentucky Rand Paul devono il seggio all’appoggio del Tea Party, ma sono tutt’altro che degli sprovveduti piombati su Washington: si tratta di una nuova razza che porta con sé una voglia di cambiamento non diversa da quella che Obama aveva incarnato nel 2008.

 

L’ondata di conservatorismo fiscale che i vincitori delle elezioni portano a Washington, farà fiorire una vasta gamma di nuovi studi e teorie su come affrontare la situazione economica del Paese. Gli uomini dello staff economico del presidente, da parte loro, saranno stimolati a trovare nuove modalità creative per sostenere le loro tesi, di fronte all’invasione dei nemici della spesa pubblica che controlleranno il portafogli del governo alla Camera.

 

In generale, i molti dilettanti della politica che si apprestano alla loro prima esperienza sui banchi del Congresso, riverseranno su Washington in tutti i campi una generosa dose di buonsenso da gente comune, che potrebbe far bene alla capitale.

 

La novità di quello che è appena accaduto negli Usa sta tutta qui. Mentre in Europa le proposte più innovative sono quelle del genere “Big Society” di David Cameron, che prevedono che sia il governo a suggerire alla gente di partecipare alla gestione della cosa pubblica, negli Usa lo hanno fatto direttamente, senza aspettare che fosse il governo a proporlo.

Questa capacità di inventarsi di nuovo, più sorprendente di prima, è la migliore risposta a chi definisce in crisi l’America. Ha stupito il mondo due anni fa eleggendo un presidente impensabile. Ha fatto il bis ora sfornando una nuova generazione di politici. C’è solo da immaginarsi cosa riuscirà a fare nel 2012, alle prossime elezioni presidenziali. Altro che Cina…

 

 

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