«Il piano sul fine vita di Obama è un modo con cui il governo americano dal primo gennaio taglierà la spesa pubblica per la sanità rendendo difficile l’accesso alle cure per i malati terminali. E se non ci potranno essere costrizioni in termini assoluti, il decreto apre le porte a campagne pubblicitarie dell’amministrazione Usa per convincere i pazienti a staccare la spina». Ad affermarlo è Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corriere della Sera, intervistato in esclusiva da Ilsussidiario.net. L’amministrazione Obama ha approvato un decreto che ripristina la possibilità di rinunciare a terapie invasive ed esprimere preferenze sui trattamenti di fine vita. Un provvedimento che ha fatto discutere, anche perché passato senza il consenso del Congresso e approvato dal governo Usa in gran segreto, almeno finché il New York Times ha svelato la notizia sollevando il caso.



Massimo Gaggi, quali sono gli aspetti più controversi del decreto di Obama?

Le critiche più incisive sono arrivate da quanti hanno osservato che il provvedimento ha una precisa motivazione economica. Alla luce della dinamica della spesa pubblica sanitaria Usa nei prossimi decenni, si calcola che nel 2050 raggiungerà la metà del Pil. E la parte più considerevole di questa cifra è quella relativa agli ultimi tre anni di vita dei pazienti. C’è stata quindi la volontà di fissare, attraverso il decreto di Obama, dei parametri oltre i quali diventa più difficile, anche se non impossibile, ma comunque disincentivata la cura delle malattie particolarmente gravi. Mi rendo conto che per chi vive in Italia il decreto di Obama ha degli aspetti mostruosi. Ma li ha anche il fatto che nel sistema sanitario Usa le assicurazioni possono rifiutarsi di pagare la chemioterapia a un paziente malato di tumore oltre a un certo livello di spesa.




Esiste quindi il rischio che il governo Usa per risparmiare cerchi di convincere i pazienti a staccare la spina?

 

 

Sì. Il rischio ci sarà sempre e per qualunque malattia. Una campagna pubblicitaria di questo tipo potrà essere realizzata da un’assicurazione sanitaria, ma anche dal governo o da parte di chiunque altro. Anche se sarà impossibile costringere le persone a staccare la spina, perché la decisione è affidata alla volontà individuale dei singoli. Ma a parte questo, se già oggi negli Usa le aziende farmaceutiche fanno campagne televisive in tv per prodotti anche molto delicati, che dovrebbero essere di competenza esclusiva del medico, come quelli antitumorali, contro la fragilità ossea o per la pressione arteriosa, è molto probabile che presto vedremo messaggi video contro l’opportunità di somministrare le cure terminali a pazienti con elevati livelli di sofferenza.
 



Sarah Palin ha denunciato il rischio che si creino anche dei «panel della morte», commissioni con l’incarico di stabilire di curare e chi no…
 

Il panel della morte è chiaramente uno slogan politico. Il decreto è stato concepito in modo da lasciare pienamente la scelta ai pazienti in modo da evitare, come già successo, di ricevere accuse di questo tipo dai Repubblicani. L’opposizione Usa aveva ipotizzato che Obama volesse creare un comitato di persone che si prendono la responsabilità di stabilire quali sono le condizioni oltre le quali una cura non è più somministrata. In realtà la soluzione adottata da Obama fa sì che a scegliere sia il futuro paziente, finché è ancora sano, quale tipo di trattamento vorrà avere se si troverà in condizioni estreme e privo di coscienza.
 

Ma esiste il pericolo che i pazienti non siano più in grado di controllare quali trattamenti ricevere?
 

 

 

No, mi sembra chiara la volontà di lasciare un margine di discrezionalità alle singole persone. E poi bisogna tenere conto del fatto che gli Usa sono molto diversi dall’Italia. Mentre inoltre nel sistema italiano si chiude sempre un occhio su molte cose, dai limiti di velocità all’acquisto di medicinali senza ricetta, in America tutto questo è impossibile perché c’è molta più rigidità. Quando negli Usa un paziente va a farsi l’ecografia, l’addetto che gliela fa non gli comunica i risultati, ma aspetta che sia il suo medico a farlo. In Italia quindi c’è sempre stato, anche negli ospedali di impostazione cattolica, la tendenza a evitare l’accanimento terapeutico. Mentre negli Usa se non c’è una norma precisa che lo consente, il paziente è curato a oltranza, se non altro per la paura di essere denunciati dai parenti. E quindi Obama ha voluto regolamentare anche questo campo. E poi è chiaro che stiamo parlando di un Paese che ha un sistema sanitario completamente diverso dal nostro, non solo dal punto di vista dell’organizzazione ma anche del concetto di salute, che negli Usa non è un diritto ma una responsabilità.


In che senso?

 

Il motivo è che non esiste un’assistenza sanitaria pubblica, ma tutto è affidato ad associazioni private o a società quotate in Borsa. Le persone in buona salute non sono obbligate ad assicurarsi, e sono loro che potrebbero riequilibrare i conti della sanità con redditi più elevati e minori necessità di cure. Non essendoci quindi un livello di solidarietà come in Italia, gli equilibri finanziari del sistema sanitario Usa non tiene. Quindi le assicurazioni si ritengono autorizzate a staccare la spina dei pazienti. E dal loro punto di vista non significa «basta non ti curo più», ma «da questo momento tu diventi responsabile della tua salute. Io ti ho aiutato finché potevo, ma arrivato a un certo livello ci devi pensare da solo, o con l’aiuto di un ente di beneficenza».

Ma come valuta il fatto che Obama abbia aggirato il Congresso, ricorrendo a un decreto?

 

E’ quello che da questo momento farà sempre più spesso. A gennaio infatti entreranno in carica i rappresentanti del Congresso eletti nelle elezioni di Midterm, e metà di loro sono Repubblicani. Le leggi quindi dovranno essere approvate di volta in volta con accordi bipartisan molto complicati. E a ogni concessione che Obama farà all’opposizione, i Democratici avranno da ridire. E’ chiaro quindi che lo strumento dei regolamenti d’attuazione d’ora in poi sarà quello più agevole.

(Pietro Vernizzi)