La Cina rimane ancora oggi un grande punto di domanda per l’occidente. Il paese che possiede la maggior parte dei titoli di debito pubblico americano, che mentre l’economia globale soffre la crisi finanziaria e ancora non vede spiragli di vie d’uscita, cresce del 9 per cento l’anno, è anche il paese ben saldo nell’immaginario collettivo, a più di vent’anni di distanza, per i fatti di piazza Tienanmen. Rimane così aperta la grande questione che tutti – anche gli ambienti economici – ormai si pongono: come vanno d’accordo la Cina liberale e la Cina autoritaria? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews, nell’anno in cui ricorrono quattrocento anni dalla scomparsa di Matteo Ricci, il missionario gesuita che fu in Cina tra il 16mo e il 17mo secolo.
I rapporti economici bilaterali tra Cina e Stati Uniti hanno segnato di recente un’incrinatura dovuta al tema dei diritti umani e della libertà di informazione.
Non solo in Obama, ma in tutto il mondo degli investimenti stranieri in Cina c’è oggi una certa disillusione perché sembrava che la Cina potesse evolversi in senso più liberale grazie all’integrazione economica col resto del mondo. Questo non sta avvenendo nel modo in cui ce lo si aspettava. Da una parte la Cina continua a proteggere le sue industrie con aiuti, investimenti di sostegno e agevolazioni dal punto di vista giuridico. E dall’altra cerca di frenare il più possibile non gli investimenti stranieri ma una parità di rapporto economico sulle esportazioni, sulla rivalutazione dello yuan e via dicendo. Questo penalizza tutta la comunità economica internazionale.
Vede un cambiamento di rotta da parte della presidenza Usa nei confronti della Cina?
Solo un anno fa Hillary Clinton aveva detto: noi con la Cina parliamo di tutto purché il dialogo non interferisca nei rapporti economici. Non vorrei che i diritti umani – ma questo è già avvenuto nella storia degli Usa – diventino una specie di bargaining chip, una moneta di scambio, in modo da alzare il prezzo sulle cose da chiedere alla Cina.
La Cina ha intrapreso da tempo la strada dello sviluppo capitalistico controllato dallo stato. Il partito unico però non ammette la piena libertà di espressione in campo civile politico e religioso. Dove porterà questa strada?
È una strada che potrebbe mettere la Cina in grave crisi. Quello che si chiedono tutti è: esiste la possibilità di una lenta, ma reale trasformazione? Tutti se lo sono chiesti, anche dentro il partito comunista. Ma chi propone – e non solo discute astrattamente – la possibilità di un cambiamento, viene emarginato.
Si riferisce ai numerosi dissidenti?
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Sì. I dissidenti sono tutti persone non violente che si battono per diminuire la tensione sociale, per allargare le libertà individuali, per favorire la separazione tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario, per elezioni dei capi, che metta fine alla piaga della corruzione. Ma vengono messi in prigione e condannati come cospiratori contro lo stato. Fino a quanto può durare questa repressione? Interrogarsi sull’evoluzione della Cina vuole dire prospettare delle possibili risposte a questa domanda e non solo fare previsioni sull’incremento del suo Pil.
Dal punto di vista delle religioni, che differenza c’è tra il comunismo di Mao e il nazionalismo del partito comunista oggi al potere?
L’unica differenza è che ai tempi di Mao e soprattutto ai tempi della Rivoluzione culturale il tentativo era di distruggere le religioni. Certo ora non è più così: nel senso che non si cerca più di distruggerle ma di controllarle. Ma il controllo è così soffocante che molto spesso il risultato a cui si tende è il medesimo: la distruzione della fede religiosa. Probabilmente adesso non ci sono tanti martiri come in passato; ma vi sono vescovi in prigione, sacerdoti nei lager, chiese domestiche distrutte col bulldozer. E la repressione permane anche nelle chiese cosiddette ufficiali, con un controllo che blocca ogni attività creativa.
Il partito comunista al potere non si è mostrato più pragmatico e gradualista nella concessione di maggiori spazi alle libertà individuali?
Se ci sono momenti nei quali sembra prevalere la tolleranza e la tregua, lo è solo per convenienza politica. È pur vero che in questi anni il partito comunista cinese è diviso su questo tema, perché diversi al suo interno oggi pensano che la religione sia un elemento permanente della condizione umana. E che quindi occorre trovare un modo per venire «a patti» con questa dimensione dell’uomo.
Quest’anno ricorre il quarto centenario della morte di Matteo Ricci. Qual è oggi la sua eredità?
Ha un significato importante per due motivi. È stato il primo nell’età moderna che ha aperto i rapporti della Cina con la cultura occidentale. Da Matteo Ricci in poi lo scambio è stato continuo, con il risultato che oggi la Cina può essere considerata da molti punti di vista – pensiamo a quello della scienza, della tecnologia e dell’economia – l’allievo migliore dell’occidente. Il secondo motivo invece è un’eredità «negativa», mancata.
In che senso?
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Matteo Ricci ha costruito un ponte tra l’oriente e l’occidente basandosi sulla comune natura umana e sull’elemento religioso, sulla insopprimibile esigenza di verità nell’uomo culminante nel desiderio di Dio. Ma oggi è come se la Cina facesse di tutto per occultare l’eredità positiva e cioè che questo dialogo e questo sviluppo tecnico, scientifico, economico si basa su un dialogo e un rispetto dell’uomo di natura religiosa
Faccia un esempio.
La Cina ha sottoscritto la convenzione dell’Onu per i diritti umani, e continua a dire che la situazione cinese è “speciale”, diversa da tutti gli altri Paesi, come se la razza cinese fosse “umanamente diversa” dagli altri. In realtà queste affermazioni servono solo a eliminare uno sviluppo sulla dignità umana e sui valori spirituali dei cinesi e dell’occidente. Dopo Matteo Ricci la Cina è rimasta fedele a questo principio: fagocitare gli elementi occidentali che le servono per accrescere il potere e dimenticare o emarginare ogni elemento spirituale, di dignità dell’uomo, di valore dei diritti umani.
Lei ha citato la «comune natura umana» al centro del metodo di Matteo Ricci. Non può più oggi essere riconosciuta come elemento comune tra Cina e occidente?
Ma al tempo di Ricci la natura umana era vista da entrambe le parti come eminentemente spirituale, invece oggi la sua comprensione è stata dissolta dal materialismo. In Cina al materialismo neoconfuciano è subentrato quello comunista e oggi quello consumista, forma aggiornata e nichilistica del materialismo. Quello stesso materialismo che riduce i rapporti con l’occidente al puro livello economico. Dall’altra parte anche l’occidente soffre però della stessa riduzione. Questo agevola senz’altro lo sviluppo del mercato, ma restringe la possibilità di un incontro realmente umano. La conseguenza del comune pragmatismo è il vuoto spirituale e, come sua variante possibile, la violenza. Ma questo sta generando anche nuove generazioni di persone che sono nauseati dal materialismo e hanno sete di valori spirituali, hanno sete di Dio.