Doveva accadere, prima o poi, in Gran Bretagna. Una cinquantanovenne pensionata è entrata nel guinness dei primati come la donna più anziana sottoposta a fecondazione in vitro in una clinica britannica. I dirigenti sanitari della London Women’s Clinic, una delle più accreditate e famose strutture private in cui si pratica la procreazione assistita, hanno deciso, all’unanimità, di consentire a Susan Tollefsen di avere un bambino.



Prima di tale decisione, le donne mature del Regno Unito dovevano recarsi all’estero per ricorrere all’inseminazione artificiale, perché una circolare del Ministero della Salute sconsigliava tale trattamento per le ultraquarantenni. Pure le cliniche private non praticavano la fecondazione in vitro alle donne over 50.



Per questi motivi Susan Tollefsen, ottenuto il rifiuto in patria, si era rivolta a una clinica russa per sottoporsi al trattamento che le ha consentito di partorire una bambina, Freya, che oggi ha due anni. L’arzilla pensionata ha poi voluto dare un fratellino a Freya, decidendo, questa volta, di ingaggiare una battaglia culturale. Due sostanzialmente i temi della sfida.

Primo, portare anche la Gran Bretagna a quel grado di “civiltà” in cui i diritti individuali possano essere esercitati senza troppi impicci di ordine etico, e si possano effettuare le disinvolte sperimentazioni condotte nelle cliniche russe e ucraine. Secondo, in nome della sempiterna “questione femminile” e dell’uguaglianza tra i sessi, parificare gli uomini alle donne, consentendo anche a quest’ultime di poter diventare genitrici in tarda età.



Approfittando, quindi, dell’acceso dibattito nell’opinione pubblica sul diritto delle donne in menopausa ad avere figli, la London Women’s Clinic ha colto al volo l’occasione per rivedere la propria politica aziendale e aumentare la fascia delle possibili fruitrici del servizio, accogliendo con piacere la signora Tollefsen nel novero delle proprie clienti.

Adesso in molti chiedono una legge e non una semplice circolare ministeriale per aumentare il limite d’età per le donne che intendono ricorrere alla procreazione assistita. Il problema è che la Tollefsen deve trovare una donatrice di ovociti che, una volta fecondati con lo sperma del suo partner, dovranno poi essere impiantate nel suo utero. Le probabilità che questa operazione abbia successo si aggirano attorno al 26%.

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO

Anche sulla donazione di ovociti la questione è controversa a causa dei rischi cui espone le donatrici. Tra l’altro, proprio per questo è illegale in Svizzera, in Norvegia, in Italia, in Germania e in Austria. Laddove è consentita, le donatrici non possono ricevere denaro. Solo in Gran Bretagna è prevista una forma di “rimborso” molto discutibile.

 

Lo scorso luglio, infatti, ha suscitato qualche polemica il fatto che Lisa Jardine, Presidente della HFEA – l’autorità britannica che si occupa di embriologia e fecondazione umana – avesse proposto di modificare l’attuale legge per consentire la possibilità di offrire a giovani donne denaro pubblico in cambio di ovociti.

 

Esiste anche il problema che oggi in Gran Bretagna esistono le banche del seme ma non sono state ancora istituite banche degli ovociti. Non c’è il minimo dubbio, però, che a breve partirà la girandola del business, visto che le modifiche apportate all’attuale legge in materia, consentono ora la possibilità di stoccare gli ovociti per 55 anni, rispetto ai 5 previsti prima.

 

La mia cara amica Josephine Quintavalle, direttrice del CORE Comment on Reproductive Ethics (di cui anch’io mi onoro di far parte), sulla vicenda di Susan Tollefsen ha sollevato seri dubbi: «Ciò che in questi casi non si vuole considerare, a parte i diritti dei bambini, è la questione della donazione di ovociti. È giusto tenere all’oscuro le donatrici sul destino dei loro ovociti? E siamo proprio sicuri che alcune donne si esporrebbero ai rischi medici legati alla donazione se sapessero che i loro ovociti devono essere impiantati nell’utero di una sessantenne? Non è lecito sfruttare una donna, mettendone in pericolo la salute, per realizzare le fantasie di un’altra donna che non intende accettare di essere ormai in menopausa».

 

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO

Sagge parole, cara Josephine. Ma il punto è che le femministe hanno da tempo rinunciato alla lotta contro lo sfruttamento del corpo della donna, intorno al quale sta fiorendo un lucroso mercimonio grazie proprio alle nuove frontiere della ricerca scientifica in campo riproduttivo.

 

Pecunia non olet ricordò Vespasiano al figlio indignato perché il padre-imperatore aveva introdotto un’imposta simile all’IVA, la centesima venalium, sulla vendita che i gestori privati delle 144 latrine pubbliche romane facevano dell’urina – da cui si ricavava l’ammoniaca – acquistata a buon prezzo dai conciatori di pelle. Allora come ora, per molti, il denaro continua a non puzzare.