Suscita ovviamente stupore la notizia che un Paese ormai stabilmente integrato nell’orbita dell’economia e del commercio mondiale, con tassi di crescita del PIL tra i più elevati, agganciato stabilmente alla Comunità atlantica possa vivere l’esperienza di un colpo di Stato. Eppure è quanto il primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan ha denunciato nel corso di una visita in Spagna, rendendo noti alcuni dettagli dell’operazione di polizia che ha condotto all’arresto di 40 tra i più importanti vertici militari del Paese.



Il tentativo di rovesciare il governo del partito filo-islamico AKP (Partito del Benessere, poi trasformato in AP per una sentenza della Corte suprema turca che vietava il riferimento alla dottrina islamica) risale al 2002, anno in cui Erdogan vinse le elezioni politiche con una schiacciante maggioranza.

Già allora, le voci critiche su una possibile deriva islamica della Turchia non mancarono, in un rimpallo di accuse e di caveat che costella tipicamente la storia moderna del Paese anatolico. I militari sono i custodi della laicità dello Stato fin dai tempi della rivoluzione di Kemal Ataturk, che agganciò definitivamente la Turchia all’Occidente, secolarizzandola.



Da allora, ad Ankara si sono prodotti in meno di settant’anni ben quattro colpi di Stato, con la presa di potere temporanea dei militari per motivi di sicurezza nazionale. In questo clima, è ovvio che l’ascesa prepotente al potere di un partito politico che si richiama esplicitamente all’Islam (benché secolarizzato) sia stata vissuta con particolare preoccupazione da parte dei garanti del kemalismo, e dei militari in particolare.

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Le indagini sul tentativo di putsch, che prevedeva anche due attentati ad altrettante moschee di Istanbul ed un incidente con caccia greci nei cieli dell’Egeo, hanno fatto emergere una rete fitta di relazioni tra militari e giornalisti, il cui obiettivo era quello di delegittimare il governo di Erdogan e rovesciarne quindi il potere. Un piano, conosciuto come Balyoz (“martello”) e che era stato denunciato appena un mese fa dal quotidiano turco Taraf.



La vicenda della congiura ai danni del governo si collega strettamente ad un’altra clamorosa rivelazione fatta dalla stampa nel 2008 e parzialmente ammessa da alcuni degli indagati: in Turchia sarebbe stata a lungo attiva una struttura paramilitare, conosciuta come “Ergenekon”, composta da circa 400 tra stellette, intellettuali, banchieri e professionisti, pronta ad attivarsi in caso di ribaltamento in senso islamico della Costituzione.

Una rete che la stampa, anche locale, ha paragonato alla italiana Gladio per missione, obiettivi e consistenza. La notizia del fallito golpe avrà delle conseguenze non superficiali anche sull’opinione pubblica turca, preoccupata di vedere intaccate le conquiste in senso democratico di questi ultimi due decenni.

Resta, sullo sfondo, un enorme vuoto da parte dell’Europa, che dovrebbe una volta e per tutte porsi il problema dei danni che la sua politica attendista e prudente verso Ankara sta causando negli equilibri di un alleato chiave per la sua sicurezza e di un partner energetico e commerciale formidabile.