Barack Obama mette in campo il suo peso politico per spingere la riforma della sanità al traguardo. Lo stallo al Congresso dei due testi di legge, molto diversi fra loro, approvati prima dalla Camera (7 novembre) e poi dal Senato (24 dicembre), ha costretto la Casa Bianca a rompere ogni indugio e ad assumersi la responsabilità di scrivere di proprio pugno una bozza di compromesso per riformare l’health care.



Un’operazione difficile su cui Obama si gioca la credibilità e forse il futuro stesso della sua presidenza e che fa i conti con il poco tempo rimasto: in novembre si vota per il rinnovo del Congresso (midterm elections) e la campagna elettorale, primarie comprese, è ormai al via. I democratici, in difficoltà, e i repubblicani, che toccano con mano la possibilità di porre fine dopo appena due anni allo strapotere democratico, sono poco attratti dalla voglia di fare concessioni a Obama in questa stagione elettorale.



Finora la Casa Bianca si era limitata a indicare la strada, fornire le indicazioni di massima e gli obiettivi ai legislatori: garantire la copertura assicurativa a 46 milioni di americani che a oggi ne sono privi; ridurre il potere delle compagnie assicurative e delle lobby, abbassare i costi delle prestazioni sanitarie (e dei premi) e ridurre le spese così da salvare un sistema oggi inefficace e vicino alla bancarotta.

Il piano di Obama è chiaro: lunedì ha presentato la sua proposta, domani la discuterà con i repubblicani e i democratici del Congresso in un dibattito in diretta tv. L’obiettivo è duplice: mostrare che il piano della Casa Bianca è un giusto equilibrio fra le posizioni in campo e, sotto il profilo politico, costringere i repubblicani a prendere una posizione netta sperando comunque di incassare. Nel caso i conservatori dicessero sì, Obama potrebbe vedere coronato il sogno di riformare la sanità; in caso di rifiuto invece la Casa Bianca accuserebbe i rivali di voler far naufragare una riforma, a detta di tutti necessaria, per mero calcolo politico-elettorale.



Il ragionamento, sin troppo lineare, tuttavia cozza con alcuni dati. Innanzitutto i problemi per Obama potrebbero nascere dal piano in sé presentato lunedì. Testi alla mano e calcolatrice, esso non differisce granché da quello votato dal Senato. Costerebbe 950 miliardi di dollari (in dieci anni) contro gli 871 del bill al Senato e i 1050 miliardi del piano varato dalla Camera. Secondo la Casa Bianca, la proposta presidenziale ridurrebbe di 100 miliardi di dollari in dieci anni il deficit federale. Ma la stima non è stata confermata (il piano non è stato ancora valutato nei dettagli) dal Congressional Budget Office.

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Quello che appare evidente però è che Obama ha seguito come modello per la sua versione dell’health care quello licenziato dal Senato. In comune a esso ha la creazione di una sorta di borsa a livello statale (e non federale) dove piccoli imprenditori, aziende e persone senza copertura assicurativa possono comprare polizze che rispondono a requisiti fissati dal governo centrale.

 

Della bozza del Senato Obama sposa anche le restrizioni sull’aborto. Nel testo della Camera il divieto a ricorrere a sussidi riconducibili a piani assicurativi pubblici per l’aborto era netto. Al Senato invece vi è un escamotage: chi sceglie una polizza che contiene l’aborto deve pagare questa prestazione separatamente. In pratica servono due ricevute: una che certifica l’acquisto della polizza (e che è deducibile); un’altra invece che certifica la copertura per l’interruzione di gravidanza (e ovviamente la spesa è netta). Obama sostiene la medesima opzione.

 

E proprio questo è uno degli aspetti più controversi. Alla Camera infatti alcuni deputati democratici costrinsero la speaker Nancy Pelosi a introdurre nel testo di riforma dell’health care un emendamento (poi approvato) pro-life che vieta il finanziamento in qualsiasi forma di pratiche abortive. Diversi esponenti pro-life come Bart Stupak (il primo firmatario dell’emendamento) hanno detto che non voteranno mai una legge meno restrittiva come quella varata dai colleghi senatori. E ora proposta dalla Casa Bianca. Non sarà facile convincere l’ala pro life a schierarsi con la maggioranza.

 

Vi è poi un altro aspetto decisivo. Obama ha confermato il no alla creazione di una sorta di mutua pubblica (la cosiddetta public option) e sposato la linea del Senato che prevede – per abbassare i costi e aumentare così il numero di potenziali americani assicurati – che le compagnie assicurative possano competere fra loro anche in Stati dove non hanno sede legale. Insomma una compagnia della Pennsylvania potrà vendere polizze nello Stato di New York, cosa finora proibita (questa idea era la pietra portante del piano di riforma del candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2008 John McCain).

 

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Obama frena anche sulle penalizzazioni o meglio multe per chi non si assicura. Non c’è l’obbligatorietà di acquistare un’assicurazione ma aziende e individui sono “caldamente invitati” per non perdere sgravi fiscali o vedersi appioppate sanzioni che, nella versione del Senato, arrivano sino al 2% del reddito nel 2016 quando la riforma sarebbe dovuta andare a regime. La Casa Bianca infine sostiene che il governo federale si farà carico dei costi per l’espansione del Medicaid condividendo l’aggravio delle spese con gli Stati.

 

Capitolo importante è quello fiscale. L’idea di Obama è di innalzare la base per l’esenzione che sarà portata da 23mila dollari a 27mila dollari all’anno per chi acquista piani-famiglia. Inoltre fino al 2018 ci sarà una moratoria sul pagamento delle tasse. Un passo verso la classe media. Incremento delle tasse invece per gli alti redditi che subiranno un prelievo del 2,9% per alimentare il Medicare.

 

Un piano complesso insomma, come del resto la stessa materia health care. Obama è forse all’ultima mano della partita. Giovedì toccherà ai repubblicani replicare. Sono pronte centinaia di emendamenti. Ma non è solo da destra che Obama dovrà guardarsi. Pure molti democratici (e non solo i pro-life, ma pure l’ala liberal infuriata per la fine della speranza di una mutua pubblica per tutti) sono pronti ad affondare Obama e i suoi sogni. Al Senato i democratici si sono riuniti subito per valutare la proposta, alla Camera il caucus liberal si è trovato concorde nel prendere tempo. Non proprio una notizia confortante per Obama.