Nei social network passa davvero di tutto. Persino l’accurata descrizione in diretta di un aborto praticato con la pillola RU486. L’autrice dell’allucinante trovata è Angie Jackson, una ventisettenne americana, che ha deciso di condividere su Twitter questa sua esperienza, col fine dichiarato di voler «sdrammatizzare» l’aborto. La donna, peraltro, si sente particolarmente orgogliosa di far parte della schiera degli antiteisti, coloro, per intenderci, che a differenza degli atei non si limitano a non credere in Dio ma combattono in maniera attiva e, a volte, aggressiva la stessa idea di divinità.



Quando lo scorso 13 gennaio Angie Jackson si è accorta della sua gravidanza indesiderata, non ha esitato a farlo sapere ai suoi 800 “amici” virtuali, attraverso un messaggio lapidario: «Pregnant!». Da quel momento il numero dei fan è raddoppiato. Tre settimane dopo, la Jackson decide di interrompere la gravidanza optando per la pillola abortiva RU486 invece di ricorrere all’intervento chirurgico. Da qui l’idea di rendere pubblica questa tragedia personale attraverso quella inquietante dimensione immateriale che si chiama cyberspazio.



Così, “antitheistangie” (Angie l’antiteista) – questo è lo username della donna – lo scorso 21 febbraio inizia a postare su Twitter: «I crampi cominciano ad aumentare». Qualche ora più tardi comunica: «Ora inizio decisamente a perdere sangue». E via descrivendo fino ai più raccapriccianti dettagli. Quello che la donna non aveva immaginato, però, erano gli inevitabili rischi legati al fatto di essersi esposta al giudizio pubblico. Le critiche per quella demenziale iniziativa, infatti, sono piovute a centinaia, rasentando, in alcuni casi, persino l’invettiva.

E non si è trattato soltanto di antiabortisti. Ciò che, però, mi ha maggiormente stupito è stata la reazione della Jackson. «Forse sono stata ingenua» ha ammesso la fiera antiteista, dichiarandosi «attonita» per il livello di livore manifestato da tante persone nei suoi confronti. In realtà, la combattiva Angie non poteva non immaginare quello che sarebbe successo, per cui la sua asserita “ingenuità” convince poco. Sarebbe troppo facile, quindi, liquidare questa storia come la semplice azione di una squilibrata.



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Senza scomodare la psicoanalisi junghiana, credo che quanto successo potrebbe scaturire da qualcosa di più profondo. Forse la scorza spavalda dell’ideologia ha nascosto, in realtà, la comprensibile fragilità umana di quella donna di fronte alla tragedia dell’uccisione del proprio figlio. L’ostentato ateismo, la pretesa di combattere una battaglia per demistificare l’aborto, il linguaggio smaccatamente spavaldo e fuori luogo, probabilmente non hanno rappresentato altro che il disperato e patetico tentativo inconscio di sconfiggere la solitudine.

Sì, questa è la parola chiave: solitudine. Una condizione che non corrisponde al desiderio originale dell’uomo e che rappresenta il contrario della vita affermata come fattore positivo, pieno di ricchezza e significato. Di fronte alla tragedia della soppressione di un figlio, Angie Jackson è sprofondata nell’angoscia silenziosa del buio e della notte, in quella disperata solitudine che, Vladimir Nabokov, nel suo romanzo Fuoco Pallido, rappresenta come «il campo da gioco di Satana».

Da qui la ricerca disperata di aiuto, inconsciamente urlata nel mondo virtuale e senza confini della rete. Così ho interpretato le parole di Angie Jackson che, a mio parere (ma è solo un’impressione personale non una diagnosi psicologica), potrebbero rappresentare la vera motivazione di quel gesto apparentemente insano. «Dal punto di vista emotivo», ha infatti confessato la donna, «mi sono sentita di agire così apertamente e con il supporto morale dei miei amici, perché solo in questo modo tutto è stato più facile».

Questa è la prova, qualora ve ne fosse bisogno, di quanto siano devastanti gli effetti psicologici dell’aborto “fai da te”, di quella pillola RU486 che fa ripiombare la donna sola di fronte alla tragedia dell’interruzione di una gravidanza. Proprio ciò che la Legge 194/78 voleva combattere.

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Questo è lo scenario a cui, purtroppo, potremmo assistere nel nostro Paese, qualora le Regioni optassero per la scorciatoia del Day Hospital, anziché, come prevede la legge, il ricovero e l’assistenza ospedaliera. Che questa rischi, peraltro, di essere la fine che ci attende, lo dimostra l’autorevole vaticinio del guru Umberto Veronesi: «Io credo che non sarà più necessaria, in futuro, alcuna forma di ospedalizzazione».

Il grande luminare milanese preferisce, infatti, che le donne abortiscano da sole e chiuse nell’angusto spazio del bagno di casa propria. Le femministe, ovviamente, tacciono indifferenti all’angosciante situazione umana in cui verrebbero a trovarsi le donne che decidono di ingoiare la RU486. Non tutte avranno il coraggio di chiedere aiuto.

Magari nel modo volgare e dissennato di Angie Jackson. Molte saranno costrette a macerare in silenzio il proprio infinito dolore, avvolte dalla gelida coltre della solitudine, che mai come in questo caso apparirebbe per quello che davvero è. Il campo da gioco di Satana.