I destini della riforma dell’health care sono rimasti in bilico fino a domenica pomeriggio. È toccato al deputato Henry Waxman annunciare ai cronisti che era stato raggiunto un accordo con il “plotoncino” di democratici pro-life contrari a votare il testo di riforma poiché non conteneva sufficienti restrizioni al finanziamento pubblico dell’aborto.



Poco dopo la Casa Bianca ha messo la parola fine, chiuso la partita con i “ribelli” pro-life e spianato la strada all’approvazione della legge. O almeno del grosso della legge. Le modifiche, racchiuse in 153 pagine, vanno dritte al Senato che entro fine settimana, a maggioranza semplice le approverà completando così l’opera di riforma del sistema sanitario statunitense e consegnando a Barack Obama, il presidente del change, il primo tangibile segnale di cambiamento.



Ora l’Amministrazione può ripartire. Obama aveva giocato tutto su questa impresa, stimolato dal carisma del visionario Ted Kennedy, pungolato dalla sua stessa base elettorale liberal e spronato dalla sua esperienza di vita. Quella della madre morta di cancro e ancora prima abbandonata da esose assicurazioni sanitarie che le negarono i rimborsi per le cure necessarie.

Obama ha vinto. E poco oggi in fondo conta se i contenuti di questo successo sono distanti dai piani originari: mutua per tutti, ruolo federale sono voci assenti o smussate. Della public option non resta che l’ombra, l’assicurazione per tutti è mascherata dietro un timido obbligo di comprare polizze. Chi non si assicura è multato. E sono 32 milioni i beneficiari della riforma, non certo quei 47 milioni (più i clandestini) che Obama e i suoi avrebbe voluto includere.



Eppure il presidente capace di mettere in un angolo l’ideologia e abile nello sguainare la spada della Realpolitik è uscito dalla porta principale con lo scettro del vincitore. Insieme a Nancy Pelosi, caparbia, tosta, tenace, dura e tutt’altro che schiava delle sue posizioni liberal. Se Bart Stupak, il capo del plotone di 12 democratici pro-life che fino all’ultimo ha tenuto in scacco la riforma ha ceduto, il merito è di questa italo-americana, speaker della Camera eletta nel distretto più progressista d’America capace di richiamare la sua fede cattolica e di giustificare tramite questa il “primato” (a suo dire) del soccorso ai poveri rispetto ai valori non negoziabili, mostrando flessibilità rispetto alla rigidità mostrata, questa volta in maniera inoppugnabile, dalle gerarchie della Chiesa Usa.

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I vescovi hanno manifestato da subito il sostegno alla riforma, ma ne hanno condizionato l’approvazione al nodo dell’aborto. Al “no” a qualsiasi forma di sussidi pubblici per l’interruzione di gravidanza i vescovi mai hanno rinunciato. Anche quando i fondi federali (come nel testo di fatto approvato) non andavano direttamente a finire alle polizze che contenevano prestazioni sanitarie come l’aborto.

 

Stupak e i suoi si sono “accontentati” (si fa per dire) di un executive order con il quale la Casa Bianca negherà soldi e fondi alle cliniche abortiste. La Conferenza episcopale Usa avrebbe forse voluto di più poiché un executive order ha valore meno vincolante di una legge e può essere ritirato o rovesciato da un tribunale.

 

Se una lezione i cattolici Usa devono trarre da questo lungo braccio di ferro sull’health care è la divisione creatasi fra le file dei credenti. Con la maggior parte dei cattolici favorevoli alla riforma, e la Chiesa, come istituzione, contraria. Scenario che in fondo riflette il flusso elettorale del 2008 quando la maggior parte del mondo cattolico votò per “l’abortista” Obama mettendo in primo piano le preoccupazioni socio-economiche rispetto ai cosiddetti temi etici.

 

I repubblicani hanno perso la battaglia, ma la “guerra” è ancora in gioco. Perché se oggi Obama e i suoi festeggiano, la destra ha già spostato il mirino a novembre quando si svolgeranno le elezioni di medio termine. Il Gop sogna di riprendersi il controllo del Congresso e minaccia di riscrivere parte della normativa. Gli analisti sostengono che i democratici pagheranno dazio anche per aver approvato da soli, rinunciando a un accordo bipartisan, l’health care. In realtà se lo spirito bipartisan si è infranto molte delle responsabilità le hanno i repubblicani che mai hanno voluto discutere realmente con i democratici.

 

Le elezioni di midterm saranno giudici implacabili, ma la bontà o meno della riforma Obama si misurerà negli anni. Prima di tutto conterrà il deficit come previsto? Aumenteranno gli assicurati? Le compagnie assicurative abbatteranno i premi? Domande alle quali i repubblicani pretendono di dare risposte negative, ma solo il tempo sarà galantuomo.

 

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Sta di fatto che Obama, spesso e non a torto dipinto come un finto decisionista, ha agito da statista mettendo in secondo piano gli umori del Paese, infischiandosene dei sondaggi. Anziché lo oscillazioni del suo gradimento, ha trattato i numeri, i dati, le cifre del bilancio della sanità, dei non assicurati e dei costi esorbitanti con sano realismo. E ha capito di avere in mano l’occasione storica di cambiare.

 

La sua legge costerà 940 miliardi di dollari in 10 anni, ma abbasserà, dice l’organismo bipartisan del Congresso (Cbo) il deficit di 138 miliardi di dollari nello stesso lasso di tempo. I repubblicani non ci credono, ai democratici centristi queste cifre son bastate per convincerli a dire sì.

 

La sua riforma non è sicuramente perfetta, e forse nemmeno la migliore di quelle possibili. Ma se è riuscito laddove molti prima di lui sono caduti, un merito lo avrà: quello di non essersi arreso nemmeno quando, appena due mesi fa, tutto sembrava perduto. Oggi è il suo giorno. Da domani torneranno l’attualità politica, le scadenze elettorali e le polemiche ad attirare lo sguardo dei “pundits” e dei giornalisti. Ma oggi Obama può legittimamente alzare il calice e brindare. Con vino californiano, s’intende, in onore dell’alleata Nancy Pelosi che dal Golden State proviene.