L’articolo è tratto dal numero di Tempi oggi in edicola

«Come possiamo ambire ad uno stato palestinese, se non siamo nemmeno capaci di rispettare la vita e la dignità di una ragazzina?». A volte ci sono domande retoriche di persone semplici che pesano più della dichiarazione di un leader politico nazionale, giudizi impliciti in un interrogativo più trancianti di un’approfondita analisi storico-politica. A volte la grande storia interseca i destini delle singole, anonime persone, e le due cose si illuminano a vicenda.



Samar Sahhar, donna cristiana di Betania, Territori Palestinesi, si sfoga coi suoi interlocutori ispirata dal triste destino di Norma, una ragazza di quindici anni che per lei è come una figlia da quando ne aveva sei. E arrivò nella sua casa d’accoglienza per bambine abbandonate e ragazze maltrattate. Gliela portarono direttamente dall’ospedale dove era stata ricoverata. L’avevano trovata legata mani e piedi all’interno di una grotta, coperta di ferite e bruciature nelle zone più delicate del corpo, gli occhi colmi di terrore. I primi giorni piangeva in continuazione e sbatteva la testa contro il muro, bisognava tenerla sotto sedativi.



A ridurla in quelle condizioni erano stati i familiari, ma nessuno di loro finì in carcere. Norma ricominciò a vivere a poco a poco, a chiamare “mamma” le donne che la accudivano e soprattutto Samar, a giocare e a cantare con una voce da usignolo. A frequentare con profitto la scuola russa, che le avrebbe permesso di trovare un lavoro redditizio una volta diventata maggiorenne.

Non si sarebbe mai aspettata che un giorno quegli stessi servizi sociali di Betlemme che l’avevano portata a casa di Samar sarebbero venuti a riprendersela per confinarla nel riformatorio di Beit Jala, lei innocente in mezzo a ragazze internate per vari reati, e separarla dalle persone che per nove anni l’avevano amata. Un gesto compiuto per pura cattiveria, per una ripicca così stupida che si fatica a crederla, per la piccineria malvagia di un pubblico ufficiale che ha usato della sua funzione come di una proprietà personale e di un potere discrezionale che gli permette di abusare impunemente delle persone e del loro futuro.



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Le cose sono andate così. Qualche tempo dopo l’arrivo di Norma giunse alla casa di Samar anche Nabila, sorella maggiore della prima, a sua volta torturata e abbandonata dai genitori. Aveva le orecchie mozzate e bruciature sul volto. Dopo un po’ il padre cominciò a farsi vivo, ogni volta minacciando di morte Samar e pretendendo che le figlie gli fossero restituite.

I servizi sociali, che pure erano all’origine del trasferimento delle ragazze nella casa di Betania, anziché difendere le minorenni e la loro tutrice si mostravano in vari modi collusi col padre violento. Del resto non avevano mai proceduto a fargli togliere la patria potestà, mettendo così Samar in una situazione estremamente difficile: doveva ogni volta respingere il padre minaccioso senza l’appoggio certo della legge, anzi rischiando sotto il profilo legale oltre che sotto quello fisico personale.

Dopo anni di astuzie e sotterfugi per proteggere le due ragazze, nel febbraio scorso Samar è riuscita a mettere definitivamente al sicuro Nabila, la più grande delle due sorelle: oramai maggiorenne, si è sposata con un giovane del posto pieno di buone intenzioni e appoggiato dalla sua famiglia. Per sormontare l’ovvia opposizione del padre di lei, la grande mamma di Betania si è rivolta al massimo tribunale islamico palestinese, che ha dato il benestare al matrimonio e costretto il padre a riconoscerlo.

A presiedere la Corte era il famoso e temutissimo Tayseer al Tamimi, il chierico il cui intervento sconvolse l’incontro ecumenico organizzato a Gerusalemme dal patriarcato latino in occasione della visita di Benedetto XVI nel 2009. Eppure tutto è filato liscio, e alla fine il padre padrone è stato costretto a dare la sua approvazione al contratto matrimoniale (kateb-el-kitab) benedetto dalla Corte islamica.

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Passa qualche giorno e Samar permette a Nabila di raggiungere Alì, il giovane marito, a casa sua. Non lo avesse mai fatto: il giorno dopo il direttore dei servizi sociali, che pure aveva partecipato al matrimonio, la chiama e la ricopre di contumelie al telefono.

«Non capivo perché fosse tanto arrabbiato», racconta Samar. «Continuava a ripetere che Nabila non poteva ancora convivere con Alì, perché non era stato celebrato l’ishar. Io rispondevo che non sapevo di cosa stesse parlando, che il matrimonio era già stato concluso e anche lui quel giorno era fra i presenti. Mi infamava dicendo che sono cristiana e non so nulla dell’islam: senza ishar il matrimonio non vale».

L’ishar è il corteo nuziale con cui la sposa viene condotta alla casa dello sposo. Che sia essenziale al rito matrimoniale islamico lo pensa solo il direttore dei servizi sociali di Betlemme. Ma il fatto di essere snobbato e contraddetto da una donna cristiana lo ha mandato su tutte le furie.

Per costringere Nabila a fare le cose come aveva deciso lui, non ha escogitato niente di meglio che prendere la sua sorellina, Norma, in ostaggio. Ha mandato i suoi sgherri alla casa di accoglienza di Betania e quelli hanno letteralmente strappato la ragazzina dalle braccia di Samar, trascinandola svenuta alla sede dei servizi sociali.

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I successivi tentativi di farla tornare a casa sono andati a vuoto: la ragazza è stata trasferita nel riformatorio di Beit Jala (due ore di auto da Betania) e lì ha potuto incontrare la sua Samar solo un paio di volte, in presenza della direttrice della struttura, e ha potuto scriverle un paio di lettere.

Soffre fisicamente e psicologicamente, non vede un futuro. Samar si è rivolta a tutte le autorità palestinesi, ma nessuno finora si è impegnato a rimandare la ragazza a casa. C’è un idiota di palestinese musulmano che per vendicarsi di una signora cristiana che gli avrebbe mancato di rispetto sta rovinando la vita di un’adolescente palestinese musulmana.

Ma nessuno interviene perché fra gli ingredienti della lite spicca la religione. Le parole delle lettere di Norma sono accorate. «Vorrei che tu tornassi e mi riportassi al tuo caldo grembo, che curava le mie ferite. Il dolore nel mio cuore è così grande, e nessuno qui lo avverte. Ti chiedo di fare di me la persona più felice del mondo restituendomi al tuo abbraccio e alle risate delle mie amiche. So che ripeterò l’anno scolastico, e sarà così per sempre. Non riesco e non riuscirò più a studiare. Sento che la vita mi trascina nei suoi gorghi. Non voglio che mi riprenda nei suoi gorghi e mi porti nel posto sbagliato. Dal mio mare di lacrime. Norma». Oh, quanti modi ci sono di abusare una bambina.