A molti il soggetto del mio ultimo libro “Pakistan, il santuario di Al Qaida” sembrerà quasi esoterico. Perché occuparsi del Pakistan? Perché tornare indietro fino gli anni ’80 per ricostruire le complesse trame dei servizi segreti di Islamabad coinvolti ora nel traffico del nucleare, ora nell’appoggio più o meno esplicito al terrore fondamentalista? Perché gran parte dei problemi da cui dipendono sicurezza ed insicurezza globale partono da lì. Il furto di segreti e tecnologie nucleari che consente al Pakistan di dotarsi della bomba atomica è lo stesso che alimenta la proliferazione nucleare d’Iran e Corea del Nord. Le attività di Osama Bin Laden e dei fondatori di Al Qaida sono iniziate sui territori d’Islamabad e -sempre lì – è stato inventato e costruito il movimento talebano. E proprio l’instabilità pakistana è all’origine delle paure di Barack Obama, preoccupato che Al Qaida possa impossessarsi di una testata atomica.



Per capire perché il Pakistan sia diventato il crogiuolo dell’insicurezza internazionale bisogna andare a ritroso fino al fatidico 1979, l’anno in cui l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan. Quell’invasione trasforma il Pakistan del generale dittatore Zia Ul Haq nel migliore alleato degli Stati Uniti. È ovviamente un’alleanza di comodo innescata dalla necessità di opporsi al comune nemico sovietico. Ma il fiume d’armi, munizioni e denaro che l’America mette a disposizione di Islamabad non arma solo la resistenza afghana. I servizi segreti d’Islamabad collaborano con gli Usa a condizione di avere il totale controllo degli aiuti transitati attraverso il loro paese e convogliano quelle forniture verso i gruppi più fondamentalisti della resistenza. Quegli stessi gruppi   accolgono tra le propri fila migliaia di volontari in arrivo dai quattro angoli della galassia islamica per combattere gli infedeli russi.



Il Pakistan di Zia Ul Haq coltiva in gran segreto una visione geopolitica assai discordante con quella di Washington. Mentre l’America punta a logorare l’Armata Rossa in una sfiancante guerra per procura, il dittatore Zia Ul Haq e i generali alla guida dei servizi segreti non dimenticano il loro nemico principale, quell’India contro cui hanno combattuto dal 1948 tre sanguinose guerre. Nei piani di Zia Ul Haq il Pakistan deve diventare il portabandiera di un alleanza islamica e anti-indiana al fianco di Afghanistan e Iran khomeinista. In questa visione s’inseriscono le mire atomiche e l’appoggio a quell’internazionale islamica da cui nasceranno Al Qaida e il terrorismo fondamentalista.



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Per il Pakistan conseguire l’atomica significa pareggiare i conti con l’India protagonista già negli anni ’70 dei primi test nucleari. A regalargliela ci pensa Abdul Qader Khan. Nel 1974 il futuro padre dell’atomica pakistana, appena assunto in uno stabilimento olandese per l’arricchimento dell’uranio, non esita a trafugare i segreti nucleari dell’Occidente. Quello scippo segna l’inizio di un’affascinante e complessa spy story lunga 30 anni nel corso della quale le spie di Islamabad befferanno ripetutamente l’Occidente, sottraendogli tecnologie e componenti nucleari. 

 

Abdul Qader Khan e le spie di Islamabad non si accontentano di regalare la bomba atomica al proprio paese. Mentre mettono a punto le proprie testate atomiche ne rivendono i segreti all’Iran e alla Corea del Nord. Solo un’operazione segreta messa a segno nel porto di Taranto da Cia e 007 inglesi con la collaborazione del servizio segreto italiano costringono Gheddafi ad ammettere che lo Stranamore pakistano A. Q Khan sta vendendo anche a lui piani e tecnologie nucleari. Lo snodo pakistano è cruciale anche per la nascita del terrore fondamentalista. Con il ritiro sovietico il Pakistan si ritrova a controllare un immenso arsenale e un’internazionale islamica indispensabile per alimentare il conflitto del Kashmir e controllare il vicino Afghanistan. Così sono i servizi segreti pakistani a creare e manovrare i talebani e sono sempre i servizi segreti di Islamabad a garantire il passaggio in Afghanistan di Osama Bin Laden alla metà degli anni ’90.

 

Quell’appoggio fin troppo evidente continua fino al 2001 quando – all’indomani dell’11 settembre – gli Stati Uniti chiedono al Pakistan di scegliere tra una nuova alleanza e un ritorno all’età della pietra. La minaccia americana induce il generale Pervez Musharraf a riavvicinarsi all’America e a disfarsi di quelle componenti dei servizi segreti più colluse con Al Qaida e talebani. Ma è una mossa di facciata. Gli esponenti dei servizi segreti costretti alle dimissioni si trasformano nei manovratori di quegli apparati deviati che continuano a collaborare con Al Qaida, dare ospitalità ad Osama Bin Laden, garantire appoggi ai terroristi attivi nel Kashmir indiano e vanificare i tentativi americani di mettere le mani sui capi del terrorismo.

 

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Questa doppia e occulta regia segna la storia recente del Pakistan ed è all’origine di molti misteri e casi irrisolti come il rapimento e la decapitazione del giornalista americano Daniel Pearl, l’assassino di Benazir Bhutto, gli attentati terroristici di Mumbai e il micidiale attentato che lo scorso 30 dicembre consente ad un kamikaze di Al Qaida di uccidere in un solo colpo sette uomini della Cia, tra cui i responsabili della caccia ad Osama Bin Laden. Ma la spietata lotta intestina che lacera il Pakistan è ormai vicina all’epilogo. Se vinceranno i generali e i capi dei servizi segreti più vicini all’Occidente sarà possibile sconfiggere Al Qaida, mettere fine all’infiltrazione dei talebani che fanno del Pakistan una retrovia del conflitto afghano e arginare quel terrore integralista che ogni anno miete migliaia di vittime innocenti. Se vinceranno gli apparati deviati vicini al terrore integralista la nazione pakistana si dissolverà e l’incubo di Barack Obama si trasformerà in cupa realtà. Per la prima volta un gruppo terrorista avrà accesso ad un arsenale nucleare e potrà usare l’arma atomica per colpire e minacciare i propri nemici.