L’esplosione di un ordigno ha provocato, l’altro ieri, in Afghanistan, la morte di due giovani soldati italiani: del sergente Massimiliano Ramadù, di 33 anni, e del caporalmaggiore Luigi Pascazio di 24. Mentre ancora riecheggia il frastuono dello scoppio, in Italia la politica si stringe nel cordoglio attorno ai parenti delle vittime. Già si intravedono, tuttavia, i primi distinguo tra chi pensa che la missione vada mantenuta e chi crede sia giunta l’ora di ritirare i nostri militari. Si tratta, probabilmente, dei prodromi delle polemiche che nei prossimi giorni infuocheranno, ancora una volta, il Parlamento e il dibattito pubblico. Lasciando, così, inevase molte importanti domande circa il senso e l’utilità della presenza italiana nel Paese. Abbiamo chiesto a Toni Capuozzo di rispondere ad alcune di queste domande.



Di primo acchito, quali impressioni ha suscitato in lei la morte dei due militari italiani in seguito allo scoppio dell’ordigno?

Per me si è trattato dell’ennesimo dolore. Perché ognuno di loro, anche se non lo hai mai visto personalmente, ti sembra di conoscerlo da sempre. Perché sono tutti ragazzi. Giovani, ma con importanti scelte di vita alle spalle. E spesso con delle famiglie.



Sono in molti, in Italia, anche nella maggioranza (specie – a fasi alterne – la Lega), a chiedere il ritiro delle truppe dal Paese. Cosa ne pensa?

Noi siamo lì per aiutare il Paese a stabilizzarsi, per evitare che diventi un trampolino di lancio per il terrorismo internazionale. E’ triste vedere che, ad ogni lutto, ci sia il solito dibattito. In questi momenti non dovrebbe esserci nient’altro che il silenzio, il cordoglio. Il dibattito lo si dovrebbe innescare in altri momenti. Siamo lì anche per difendere la tranquillità del nostro Paese, del nostro stile di vita e della nostra società. Certe diatribe rappresentano un problema tutto italiano, senza alcun rapporto con la situazione afghana. Si tratta di battibecchi provinciali.



Nello scenario internazionale, la presenza italiana che ruolo svolge? Ha senso ed è utile che i nostri militari rimangano in Afghanistan?

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Evidentemente sì. Perché c’è uno “stile italiano” nell’unire il controllo militare alla ricostruzione che sarebbe sciocco negare. Penso che l’Italia abbia portato un contributo originale all’intervento in Afghanistan, in particolare nel Prt, il Provincial reconstruction team. Si tratta dell’intreccio tra aiuto ai civili e lavoro per la sicurezza. Gli altri Paesi lo stanno studiando e, in qualche modo, cercano di mutuare il nostro approccio ai problemi e il nostro modo di rapportarci con la popolazione.

 

Come giudica, attualmente, la situazione in Afghanistan?

 

Negli ultimi anni credo che addirittura siano stati fatti dei passi indietro. L’andamento così poco soddisfacente delle ultime elezioni, che hanno riconfermato Hamid Karzai, non aiutano a considerare li Paese sulla via della stabilità. L’attuale presidente è, infatti, un Pashtun. Si tratta del gruppo etnico che spesso ha flirtato con Al Qaeda ed i talebani. Ma, in questo momento – purtroppo – non ci sono alternative. Non ci sono altri interlocutori. Karzai è l’unico partner che l’Occidente abbia individuato. Ed è l’unico in grado di tenere insieme, al momento, il Paese.

 

L’Afghanistan, formalmente, è una democrazia. Lo è anche di fatto?

 

Democrazia è una parola che ha un significato solo per noi. Per un afghano comune, spesso, rispetto a quelli che noi consideriamo meccanismi democratici prevale la fedeltà alla famiglia, al clan, alla tribù o all’etnia. O la fedeltà alle leggi della religione e alla giustizia amministrata dagli anziani. E’ un Paese che ha avuto robuste iniezioni di democrazia, certo. Ma è anche ben lontano dal rappresentare un brillante esperimento di regime liberale in una società che non l’ha mai vissuto. Basterebbe, ad esempio, il fatto che la giustizia afghana aveva condannato a morte uno studente reo di aver pubblicato un articolo sul Corano e i diritti delle donne. Pena, poi, tramutata in 30 anni di carcere.

 

Quindi, il “tasso di libertà” dei singoli, specialmente delle donne, secondo lei è rimasto invariato rispetto a prima della guerra?

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E’ aumentato, questo è certo. Ci sono milioni di ragazzine che vanno a scuola e che prima non ci potevano andare. Ci sono donne che lavorano. Sicuramente è migliorato. Il problema è che noi guardiamo all’Afghanistan con la “puzza sotto il naso”. Facciamo gli esami di democrazia agli altri Paesi senza pensare, per esempio, che le seconde elezioni di Bush furono molto dibattute, o che Mercedes Bresso ha da poco fatto ricorso in seguito alle scorse elezioni regionali. Non viviamo neppure noi in una democrazia perfetta. Fare gli esami agli altri con supponenza è ingiusto.

 

Quali politiche dovrebbe mettere in atto la Comunità internazionale perché il Paese volti pagina?

 

E’ necessario che gli Stati coinvolti si  mostrino fermi e decisi nel rimanere a lungo, verificando, passo dopo passo, eventuali miglioramenti o peggioramenti. Ma, naturalmente, è un impegno di lunga durata. Che ha a che fare con la stabilità dell’intera regione. Il Pakistan, ad esempio, è un terreno molto friabile e la situazione in Iraq, specie in questi giorni, testimonia che l’intera area è un problema.


Il coinvolgimento di esponenti talebani “moderati” e delle tribù locali nella lotta al terrorismo sta dando i suoi frutti?

 

Solo in qualche raro caso. In un Paese in cui anche il cosiddetto nemico è costituito da tante fazioni, di tanti individualismi e personalismi, essere riusciti in alcuni posti a scollare i talebani moderati da quelli più fondamentalisti non ha finora dato i risultati che questa tattica ha dato in Iraq. Come neanche, del resto, il rafforzamento del dispositivo militare. E’ anche vero, tuttavia, che si tratta di un processo obbligato. Mentre si può dichiarare guerra totale agli stranieri di Al Qaida, nei confronti dei Talebani ci deve essere un’iniziativa militare che non trascuri quella politica.