Le recenti elezioni britanniche hanno posto il Paese di fronte a scenari nuovi: la sconfitta dei Labour non si è tramutata in una chiara vittoria per i Conservatori, e un inusuale governo di coalizione si è appena insediato. Vi offriamo qui un’analisi delle ragioni e dei meccanismi che hanno portato Gordon Brown a perdere, David Cameron (quasi) a vincere, e i Liberal-Democratici al governo per la prima volta dopo decenni.



1. La regola elettorale attuale

I sistemi elettorali sono raramente un argomento che attrae molto l’attenzione del pubblico, ma per queste elezioni britanniche vale la pena spendere qualche parola su di esso. In Gran Bretagna il sistema elettorale è il maggioritario secco: in ogni collegio viene eletto un deputato, che rappresenterà quella zona geografica. Il deputato eletto è quello che ottiene la maggioranza (relativa) dei voti nel collegio.



La logica è molto semplice: nei sistemi proporzionali, come in Italia, sono i partiti e non i singoli deputati a garantire il legame con i territori. Nei sistemi maggioritari invece ogni paese, area, o città sono rappresentati in Parlamento da una singola persona.

Questo deputato avrà poi un ufficio (e spesso una casa) nel proprio collegio, e terrà delle “surgeries”, vale a dire delle specie di orari di ricevimento, per i propri elettori. Non è raro che per campagne politiche di varia natura (guerra in Iraq, aborto, politiche scolastiche) si venga invitati a “scrivere al proprio deputato”, il quale, immancabilmente, risponde “personalmente”.



 

Gli effetti di questo sistema sono che, generalmente, a livello di collegio, ci sono due grandi partiti che si scontrano e che hanno qualche probabilità di vittoria, e poi i soliti partiti minori senza alcuna speranza di vincere. Tradizionalmente questo è quello che accadeva in Gran Bretagna: Labour e Tories prendevano la gran parte dei seggi, essendo i due partiti più rappresentativi in tutto il territorio nazionale.

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Un sistema generalmente bipartitico a livello locale (di collegio) e generale (in Parlamento). Questo sistema ha sempre svantaggiato la nascita di nuovi movimenti politici (si pensi a quanti nuovi partiti sono nati e morti invece in Italia negli ultimi vent’anni) e soprattutto i Liberal-Democratici, che hanno sempre goduto di quasi un quarto dei consensi, ma in modo molto “sparso” e poco concentrato, riuscendo quindi a vincere pochissimi seggi.

 

Se un paese è quindi sufficientemente omogeneo, ciò che capita è che il partito di maggioranza relativa ottiene la maggioranza assoluta dei seggi, e governa da solo. Questo è ciò che è sempre capitato in Gran Bretagna. Prendendo ad esempio le elezioni del 2005, le ultime vinte da Blair, abbiamo i Laburisti che riescono ad ottenere il 55% dei seggi con il 35% dei voti.

 

 

 

È evidente come questo sistema, per chi come noi è abituato a logiche proporzionali, sembri molto distorsivo delle scelte degli elettori: il voto di chi preferisce i Lib-Dem finisce per contare molto meno del voto di chi preferisce i Labour, in termini di seggi, e quindi di governo e di politiche. D’altro canto questo sistema generalmente assicura maggiore governabilità, e una più precisa rappresentatività delle singole comunità locali.

 

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A queste ultime elezioni, tuttavia, il sistema inglese ha mostrato tutti i suoi limiti: il partito conservatore ha ottenuto più voti di quelli conquistati da Blair nel 2005, ma è riuscito a conquistare solo il 47% dei seggi, costringendo i Tories a un inusuale (per la Gran Bretagna) governo di coalizione con i Lib-Dem. Le ragioni di questo risultato (evidenziato dai grafici qui riportati) sono molteplici.

 

 

 

Da un lato Cameron non ha sfondato, e questo vale sia in generale (“solo” il 36% dei voti), ma soprattutto a livello locale. Il ricordo dei tagli feroci alla spesa pubblica operati dalla Thatcher sono ancora molto presenti in molte aree ex-operaie, come il nord dell’Inghilterra o il Galles. In queste aree i Conservatori hanno ottenuto molto meno del dovuto.

 

Più interessante è però osservare come la Gran Bretagna è un paese sempre più eterogeneo, in cui i Conservatori sono relegati al sud e alle aree rurali, i Labour al nord e alle aree metropolitane (tradizionalmente “operaie”), i Lib-Dem mantengono i loro feudi in Scozia (dove se la vedono con i nazionalisti scozzesi e, in parte, con i Labour), in Galles (dove, ancora una volta, se la vedono con i nazionalisti gallesi e in parte con i Labour) e nel sud-ovest (Cornovaglia e Devon).

 

 

 

(Per maggiori analisi: http://news.bbc.co.uk/1/shared/election2010/results/)

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Questo pone forti problemi di legittimità al partito conservatore, che guida la coalizione di governo, ma ha un solo seggio in Scozia (al confine con l’Inghilterra), due soli in Galles, e nessuno in Irlanda del Nord, dove il suo omologo Partito Unionista ha perso l’unico seggio che aveva.

 

Questo problema di legittimità è forte dato il sistema elettorale: il problema non si porrebbe, ad esempio in Italia dove comunque la Toscana (regione rossa) è rappresentata nel governo del Paese da quei deputati eletti per il Pdl in Toscana. Con il maggioritario i voti “conservatori” scozzesi e gallesi non vengono rappresentati da (quasi) nessuno in Parlamento.

 

Questo problema è ovviato dal fatto che il governo in carica è un governo di coalizione, in cui i Lib-Dem potrebbero finire per avere il ruolo di “Lega Nord” di Scozia e Galles, aree per altro più povere e a più alta intensità di spesa pubblica.

 

2. Possibili interpretazioni del risultato di voto

Quali sono le ragioni della sconfitta dei Labour (peraltro ben prevista dagli analisti così come il successivo governo di coalizione)? La spiegazione più diffusa è che gli inglesi erano stanchi di Gordon Brown e volevano un cambiamento.

 

Alcuni eventi eclatanti degli ultimi due anni hanno contribuito a questo sentimento generale. Primo, le lotte di potere intestine: la guida dei Labour passerà probabilmente al giovane David Milliband, ma le lotte interne durano da tempo e non hanno giovato alla popolarità del partito.

 

Secondo, lo scandalo delle spese dei parlamentari: esponenti di tutti i partiti ne sono stati coinvolti, ma a causa di una certa ideologia di “superiorità morale” e del fatto che erano al governo, il colpo è stato maggiore per i Labour.

 

Terzo, innumerevoli altri scandali (gli inglesi si scandalizzano facilmente) – per esempio lo smarrimento di informazioni riservate da parte del ministero di Giustizia in due occasioni diverse – che hanno contribuito a un’immagine del governo Labour come un gigante lento, inefficiente e troppo interessato ad auto-alimentarsi per ingigantirsi ulteriormente.

 

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In ogni caso, questa non è tutta la storia. Se vogliamo capire meglio le ragioni del voto non è soddisfacente sapere che gli inglesi non hanno votato Labour perché erano stanchi dei Labour, perché questa è più una tautologia.

 

Al fine di capire meglio le ragioni del voto, è interessante notare come gran parte della battaglia elettorale si sia giocata su temi di sussidiarietà: “Troppo Stato che soffoca l’iniziativa della società?” “Se sì, allora che cosa dovrebbe fare lo Stato?”. A questo proposito è altresì interessante notare che proprio i Labour sono stati accusati di eccessivo centralismo e burocratizzazione, quando invece il modello blairiano viene visto da molti – soprattutto in Italia – come il modello di sussidiarietà da seguire.

 

2.1 Troppo stato (inefficiente)

Come spesso accade, sembra che le elezioni siano state decise dalla classe media: si sapeva che i più ricchi avrebbero tendenzialmente votato Tories e i più poveri Labour, gli swing-voters da catturare erano nel mezzo. Sembra che una buona parte della classe media non abbia votato Labour perché stanca di pagare tasse per cose che non la avvantaggiano. É il problema di un welfare percepito come troppo assistenzialista, che non sembra sempre premiare il lavoro e che può creare incentivi perversi a non lavorare (moral hazard).

 

Un esempio nel tema famiglia: i proventi delle tasse usati per dare la casa alle ragazze madri, che così hanno l’incentivo a rimanere ragazze madri. In Inghilterra ci sono famiglie con tre generazioni di ragazze madri nelle case popolari dello stesso quartiere: essere una ragazza madre è una cultura e può diventare una professione, basta verificare il loro livello di conoscenza di qualsiasi legge, leggina (e trucco) in tema di assistenza.

 

Un altro esempio nel tema scuola/sussidiarietà fiscale: finanziare con soldi pubblici le scuole di zone povere dove pochi pagano le tasse. Anche questa politica può creare incentivi perversi, perché di fatto disincentiva la formazione di ricchezza dove può essere re-investita in capitale umano (le zone non troppo ricche ma in crescita) e la ridistribuisce verso zone dove non è detto che ci sarà un ritorno in termini di capitale umano (zone poverissime dove più soldi pubblici non sono riusciti a portare cambiamento).

 

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Un filone recente della letteratura scientifica che sta ricevendo grande attenzione mostra come le opinioni delle società a riguardo della cause della povertà/ricchezza (i poveri sono poveri perché non hanno avuto le opportunità o perché non le hanno colte?) siano le determinanti più importanti delle politiche distributive.

 

Economisti politici come A. Alesina, E. Glaeser, R. Benabou hanno elaborato e testato teorie con equilibri multipli in tema di opinioni-politiche-crescita. Queste teorie descrivono un equilibrio “europeo”, dove si pensa che i poveri sono poveri perché “sfortunati”, la redistribuzione è elevata, ci sono più disincentivi a lavorare, e un equilibrio “americano” dalle caratteristiche opposte.

 

L’Inghilterra è considerata stare un po’ nel mezzo, ma – come predetto da queste teorie – nel momento in cui le opinioni di una parte della classe media sono cambiate (i destinatari dei proventi delle tasse non meritano queste risorse), questa parte della classe media ha votato contro la redistribuzione.

 

A questo proposito si potrebbe anche discutere del tema degli immigrati, perché il nuovo sentimento anti-immigrati (poveri) è largamente motivato dal fatto che essi sono visti come destinatari non meritevoli di molti beni pubblici.

 

2.2 Quale alternativa

Una cosa è certa: il nuovo governo deve ridurre la spesa pubblica. Il deficit è troppo elevato e nel mercato finanziario di questi tempi, con un deficit così si rischia di fare la fine della Grecia. Come e dove ridurre la spesa è molto meno chiaro. George Osborne dei Tories è il nuovo ministro delle Finanze, per ora ha dato delle linee guida su ingenti tagli alla spesa pubblica – peraltro approvati dalla Banca Centrale inglese – ma la decisione finale di che cosa tagliare e di quanto non sarà semplice.

 

Gli inglesi vedono il welfare state come una conquista (in questo sono europei) e quindi non vogliono smantellarlo dall’oggi al domani. Questo è uno dei motivi per cui i Conservatori non hanno comunque avuto la maggioranza assoluta. Una parte della classe media li ha votati, ma altri no, perché li vedono ancora come i figli della Thatcher.

 

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L’idea dei Conservatori è che per risolvere le questioni sociali di povertà e sotto-sviluppo urbano la strada sia un intervento massiccio dei privati – soprattutto nella scuola – e che lo stato non debba interferire. David Cameron ha cercato di dare un volto nuovo ai Conservatori con un programma pieno di messaggi pro-poveri, per convincere che la società civile lasciata libera può portare solidarietà sociale. Molti però non si sono fidati comunque, anche perché il passato è pieno di esempi in cui i privati hanno fallito per quanto riguarda giustizia sociale e uguali-opportunità.

 

Adesso Lib-Dem e Tories devono scrivere le politiche insieme. Sul tema dello stato sociale i Lib-Dem sono un po’ più a sinistra dei Conservatori: vogliono mantenere alcuni aiuti diretti alle famiglie, credono nell’iniziativa privata nelle scuole, ma vogliono mantenere il controllo delle autorità locali.

 

D’altra parte anche secondo i Lib-Dem è necessario liberare di più l’iniziativa dal basso, perché c’è troppa burocratizzazione e centralismo ed essenzialmente questo è uno dei punti cruciali che ha messo insieme i due partiti. Quanto intervento statale e spesa in tema di famiglia e scuola verrà approvato non è ancora stato messo nero su bianco, sembra che la coalizione verrà testata su questi temi che riflettono esattamente i valori di due gruppi diversi.

 

3. È una coalizione stabile?

La vera domanda che si fanno in molti (bookmaker compresi) è: durerà? La risposta è ovviamente complicata, ma la nostra personale impressione è che sì, durerà. Le ragioni sono principalmente due. Da un lato, conti alla mano, questa è l’unica coalizione possibile. Se i Lib-Dem volessero fare un ribaltone e andare insieme ai Labour non avrebbero i voti necessari in Parlamento. Dovrebbero aggiungere alla coalizione anche tutti gli altri partiti “di sinistra”, come i nazionalisti scozzesi e gallesi, i verdi, il Partito Democratico Unionista del Nord Irlanda e “Alliance”, unico partito interconfessionale dell’Irlanda del Nord, ciascuno di questi con al massimo 6 deputati. Un po’ troppo per un Paese poco abituato a governi di coalizione.

 

L’altra ragione risiede nelle riforme costituzionali che i Liberal-Democratici sono riusciti a estorcere ai Conservatori. Fino a ora il Primo Ministro aveva il potere esclusivo di sciogliere il Parlamento e andare a nuove elezioni. Tutta la Costituzione (non scritta) britannica infatti è costruita in modo da non lasciare nelle mani del sovrano alcun potere politico sostanziale, dando invece questi poteri al Primo Ministro in carica.

 

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L’accordo di coalizione Cameron-Clegg prevede invece che per sciogliere la Camera dei Comuni ci voglia una maggioranza qualificata del 55% dei membri della Camera stessa. “Casualmente” una percentuale che permette comunque ai Conservatori, con il 47% dei seggi, di non correre il rischio di essere mandati a casa da tutti gli altri partiti messi insieme.

 

Il risultato di questa riforma (ancora da votare, per altro) è che i Conservatori si privano della exit-strategy più probabile nel sistema inglese: dopo un anno di difficile governo di coalizione, andare a elezioni puntando il dito contro il proprio alleato di coalizione nella speranza finalmente di ottenere una maggioranza assoluta di seggi.