È di almeno 10 morti e una trentina di feriti il bilancio dell’azione condotta dalle forze israeliane contro imbarcazioni appartenenti a organizzazioni non governative, che nella giornata di ieri hanno violato il blocco imposto da Israele nel tentativo di rifornire la Striscia di Gaza. Gli scontri si sono verificati sulla nave Marmara, battente bandiera turca. Il premier turco Erdogan ha parlato di terrorismo di stato. Unanime la condanna della comunità internazionale, mentre sul Medio oriente incombe ora lo spettro di una nuova crisi dagli esiti imprevedibili. Ilsussidario.net ne ha parlato con Vittorio Emanuele Parsi, esperto di relazioni internazionali ed editorialista de La Stampa.



Professore, la mossa di Israele ha sorpreso il mondo. Come poteva non sapere che sarebbe andato incontro allo sdegno della comunità internazionale e a conseguenze non controllabili?

Non penso affatto che il blitz israeliano avesse in preventivo di causare vittime. L’incidente è stato uno spiacevole effetto collaterale del primo scopo politico di Israele, che è quello di mantenere a tutti i costi il blocco navale per impedire i rifornimenti nella Striscia. Era così prima dell’intercettazione della flottiglia, è così anche adesso. Le imbarcazioni sapevano che violando il blocco sarebbero incorse nella reazione israeliana. Anch’io penso che il blocco sia una misura sproporzionata, ma finché Israele non cambia politica, sarà pronto con qualsiasi mezzo a farlo rispettare.



Alcuni osservatori hanno detto che Israele ha commesso l’errore di affrontare per via militare un caso politico. È d’accordo?

Il blocco, per quanto deciso unilateralmente da Israele, è uno strumento militare e la sua violazione comporta una reazione come quella che Israele ha mostrato di essere pronto ad attuare senza indugi. In realtà è una politica che va contro gli interessi dello stato ebraico e sono più i problemi che genera di quelli che risolve, perché tutte le volte che Israele ricorre all’uso della forza contro i civili fa il gioco Hamas.

Ci sono trattative in corso tra Hamas e Abu Mazen. Questo caso potrà determinarne gli sviluppi?



Ogni escalation rende più complicati i colloqui tra Abu Mazen e Hamas. L’unico vantaggio che Israele può portare a casa è quello di aver «sabotato» indirettamente i colloqui tra le due entità palestinesi. Lo scenario più probabile? Vedremo una fase di interlocuzione e di spiegazioni reciproche, dopodiché Israele convocherà Abu Mazen e lo metterà di fronte alla scelta. A quel punto Abu Mazen tratterà con Israele.

Israele non aveva messo in conto la dura reazione della Turchia: il premier Erdogan ha parlato di «terrorismo di stato». Con quali possibili conseguenze?

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I turchi non sono molto condiscendenti quando vengono sfidati sul terreno militare. In più l’AKP ha sdoganato l’identità religiosa come un elemento politicamente rilevante nel circuito politico turco e questo ha ripercussioni sul piano internazionale. Era comunque nell’ordine delle cose che i rapporti tra Turchia e Israele non potessero rimanere quelli di prima.

 

Niente più alleanza strategica?

 

C’era in passato, ma ora la Turchia intende agire da sola. Lo ha fatto ai tempi dell’invasione dell’Iraq nel 2003, non esitando a contrastare i progetti americani nel Medio oriente. Lo ha fatto di recente col Brasile sulla questione dell’uranio iraniano. Mano a mano che diventa chiaro che la porta europea si è ormai chiusa, la Turchia farà sempre di più una sua politica.

 

Cosa c’entra l’Europa?

 

Credo che i turchi siano ormai intimamente convinti che l’Europa ha chiuso loro la porta in faccia. E questo a mio avviso è stato un errore strategico, perché non è che la Turchia è rimasta davanti alla porta come l’imperatore Enrico IV a Canossa: ha cercato un nuovo posizionamento. Per qualche tempo ha accarezzato il vecchio sogno del panturchismo in direzione del Caucaso, ma era un’idea velleitaria. Ora, molto più realisticamente, si accorge che si apre uno spazio nel Medio oriente. E la relazione con Israele, entro certi limiti, è un ostacolo.

 

Fino al punto di fare sponda con l’Iran per accentuare il suo smarcamento da Israele?

 

No, la sponda con l’Iran è tattica, non strategica. È chiaro che se la Turchia pensa ad un suo ruolo nel Medio oriente, non può certo collaborare al consolidamento di un potenziale rivale. Invece un minimo di crescita iraniana può fare il suo gioco, nel momento in cui ridimensiona il ruolo di supremazia assoluta che Israele ha nella regione.

 

Nella serata di ieri si è riunito il consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre l’Ue chiede che si apra un’inchiesta. Secondo lei come sarà gestita la crisi?

 

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A mio modo di vedere è destinata a rientrare. Che possa essere l’innesco di qualcosa di più serio nella regione, non si può escludere perché il Medio oriente rimane imprevedibile. Vede, il fatto è che per quanto possiamo criticare Israele, non abbiamo nessun interesse a vedere in Palestina crescere Hamas e più in generale – nel mondo arabo – attori forti che non siano nostri alleati. Questo è il criterio strategico, il resto è l’inevitabile prezzo della politica. Che non deve stancarsi di trovare sempre nuove forme di dialogo per garantire la convivenza e scongiurare vittime.

 

Sembra un discorso cinicamente politico.

 

Non siamo noi la causa del disordine mediorientale, e non possiamo noi farci carico dei costi in termini di sangue che esso comporta. È chiaro che Israele per quanti errori faccia resta un nostro alleato; Hamas, per quanto si travesta da agnello, no. I pacifisti coinvolti? Sono anch’essi attori politici che seguono una loro strategia. Hanno forzato un blocco navale, dichiarato in modo unilaterale da Israele in violazione della legalità internazionale. C’era anche prima e ora continua.

 

L’Italia ha margini particolari di intervento nell’ambito del quadro europeo?

 

Il nostro interesse in questo momento è che la situazione si calmi: abbiamo delle truppe nel sud del Libano e prima di tutto occorre pensare a loro. Siamo impegnati in una missione che ha tanti elementi di difficoltà e che persegue dal 2006 l’obiettivo originario di consentire una tregua tra Hezbollah e Israele. Così è stato e la tregua in qualche modo tiene. Non siamo impegnati a mutare il contesto regionale, né a «fare la pace», ma a sostituire la mancanza di fiducia reciproca. Quello dobbiamo fare.

 

Secondo lei esiste il rischio che i nazionalisti turchi inducano Erdogan a fare un’azione militare?

 

Non credo. A parte le dimensioni dell’esercito turco, che dai tempi della guerra fredda si è molto ridotto, un’azione militare di qualunque tipo nei confronti di Israele significherebbe la sostanziale fuoriuscita della Turchia dalla Nato.