Il consiglio dei diritti dell’Onu ha messo ai voti una risoluzione in cui si chiede una commissione di inchiesta internazionale sul blitz delle forze militari israeliane, contro un convoglio umanitario lo scorso 31 maggio. 32 paesi su 47 hanno votato a favore, gli Usa hanno votato contro e l’Europa si è divisa: Germania e Francia hanno votato sì, l’Italia ha seguito gli Usa. Il sussidiario ha intervistato Carlo Jean, esperto di politica estera e questioni strategiche, per sapere come sta cambiando il quadro mediorientale dopo la crisi innescata dal tentativo di rifornire Gaza contro il blocco imposto da Israele.



Il segretario di stato Usa Hillary Clinton ha condannato gli atti che hanno portato alla tragedia, ma senza specificare se attribuirne la responsabilità ai pacifisti o a Israele.

A mio avviso gli Usa hanno avuto informazioni molto più dettagliate di quelle che sono state fornite al mondo circa la dinamica dell’incidente. Però la cosa che lascia più perplessi in questa vicenda è come un servizio di intelligence come quello di Israele sia potuto cadere così facilmente nella trappola.



Intanto anche l’Italia ha votato come gli Stati Uniti. Siamo contro le missioni di pace?

Assolutamente no. Il punto mi sembra un altro: in primo luogo l’Italia ha valutato che l’incidente è nato da una provocazione, poi finita in tragedia, nei confronti di Israele; e in secondo luogo il voto italiano mi pare sostenuto dalla convinzione che se la pace in Medio oriente verrà fatta, questo avverrà per le pressioni e l’influenza degli Stati Uniti. Di conseguenza l’ottimizzazione delle possibilità di pace richiede il sostegno all’azione svolta dagli Usa.

Torniamo al caso che ha originato la crisi. Si è trattato di un’astuzia turca, o di una sottovalutazione di parte israeliana del pacifismo organizzato?



Il pacifista che forza un blocco, violando le disposizioni israeliane, compie un atto politico e si espone alle conseguenze. Per quanto riguarda la Turchia, è un fatto che Ankara vuole contare di più nell’ambito del mondo islamico. Hamas appartiene ad una filiazione dei Fratelli musulmani, sunniti, e la Turchia è interessata ad acquisire, nell’ambito delle opinioni pubbliche dei paesi musulmani in cui i Fratelli musulmani costituiscono l’opposizione principale, un certo peso.

Come potrebbe evolversi a causa della crisi lo scenario politico interno israeliano?

Sicuramente accadrà qualcosa. Nell’ambito della coalizione di governo ci sono anime completamente differenti e tutte, da quella religiosa a quella socialdemocratica, hanno fortemente criticato il modo in cui è stata condotta l’operazione. Si tratta ora di capire come verrà trovato il punto d’equilibrio tra svolta politica e necessità di dare al mondo un’immagine di solidità e compattezza. Non dimentichiamo che Israele è un paese minacciato un giorno sì e l’altro no di distruzione completa.

Che ripercussioni avrà questa crisi sul processo di pace?

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L’errore commesso da Israele avrà come effetto quello di bloccarlo. Ora nessuno dei leader palestinesi può prender più impegni con Israele senza distruggere la propria carriera politica. Quale interlocutore potrà mettersi d’accordo con Israele, a condizioni accettabili per lo stato ebraico – ammesso e non concesso che ci siano – e facendole accettare ai palestinesi? L’altro risultato è che Hamas si sente molto più forte e legittimata. Non però a proseguire il confronto con Al Fatah. Tra le due formazioni c’è un contrasto di fondo, alimentato da questioni di potere e di ricchezza, tra estremisti radicali e moderati, sostenuti dall’Egitto e dalla massa degli stati arabi. Sono posizioni non conciliabili.

 

La crisi cambierà la politica degli Usa nell’area?

 

Gli Usa in questo momento hanno bisogno della Turchia per agevolare il ritiro dall’Iraq. In questa chiave di collaborazione va inquadrata la politica di apertura ai curdi fatta dal premier Erdogan e dal presidente Gul, cose che finora in Turchia non erano state assolutamente accettate. Per quanto riguarda Israele, gli Stati Uniti restano l’interlocutore obbligato.

 

A cosa prelude la nuova strategia autonoma della Turchia in Medio oriente?

 

La Turchia acquista un notevole peso nell’ambito di tutto il mondo islamico. La stessa vittoria dell’AKP di Erdogan ha fatto già crescere l’islamizzazione interna, anche se un’involuzione islamica in senso radicale è improbabile perché il paese è governato da un complesso di equilibri che sono quelli di una democrazia. Il vero problema è che a pagare il conto della propria scarsa lungimiranza politica sarà l’Europa.

 

L’Europa? Perché?

 

L’Europa ha approfittato della Turchia durante tutta la Guerra fredda come baluardo contro una penetrazione sovietica nel Mediterraneo. Adesso, a causa della politica miope di Merkel e Sarkozy, non la vuole più, ma l’Europa senza la Turchia perde la possibilità di giocare un importante ruolo strategico. Ecco perché la Turchia guarda altrove. L’influenza turca si farà sentire in Siria, provocandone un certo distacco dall’Iran. Per il resto si tratterà di vedere come «sfrutterà» il blocco del processo di pace.