Per lui è solo buon giornalismo. Per Julian Assange la divulgazione di 92mila file super segreti raccolti sui campi di battaglia e nelle retrovie della guerra d’Afghanistan dall’intelligence americana e dai suoi alleati è solo l’ultima battaglia della grande crociata. Una crociata destinata a trasformare le istituzioni mondiali in grandi scaffali di cristallo e permettere anche all’ultimo dei cittadini di valutare le informazioni più riservate.



Esaminando i 92mila dossier pubblicati in contemporanea mondiale da New York Times, Guardian e Der Spiegel vien da chiedersi se sia proprio così. In realtà per sapere che alcuni settori dell’intelligence pakistana collaboravano e collaborano con Al Qaida e Talebani non occorre andare a rovistare nei computer del Pentagono. Basta esaminare gli innumerevoli documenti che, dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan ad oggi, descrivono gli stretti rapporti tra il fondamentalismo islamico e i servizi segreti di Islamabad. Bastano libri e dossier in cui si ricorda come la Cia all’indomani dell’11 settembre pretese la rimozione del generale Mahmoud Ahmed, il capo dell’Isi che consigliò ai capi talebani di non consegnare Osama Bin Laden all’America. Basta sbirciare i rapporti dell’intelligence indiana secondo cui Islamabad sarebbe il vero mandante delle stragi di Mumbai. Bastano le trascrizioni delle comunicazioni fatte filtrare dalla Cia nell’agosto 2008 in cui si documenta il ruolo da mandante giocato degli agenti pakistani nell’attentato contro l’ambasciata indiana a Kabul. Del resto non serve svaligiare gli archivi militari neanche per sapere che in Afghanistan i raid aerei fanno vittime civili e le forze speciali dell’Isaf organizzano operazioni il cui principale obbiettivo è l’eliminazione dei capi di Al Qaida.



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Dunque cosa c’è di meglio in quei dossier, cosa contribuisce a trasformarli nell’unico e autentico modo di fare giornalismo. A sentire Julian Assange, intervenuto ieri ad una conferenza stampa a Londra, la differenza sta tutta nell’autenticità della fonte capace di trasmettere un’indiscutibile verità. A ben guardare la verità sembra però decisamente diversa. Buona parte di quei 92mila dossier super segreti sono in verità “informative” raccolte sul campo, “soffiate” al più basso livello d’intelligence. L’equivalente, per intenderci, di informative di polizia raccolte intorno al luogo del delitto. Tutti sappiamo quanto ambiguo o inverificabile sia quello spicchio di verità. Le informazioni raccolte su un campo di battaglia o sul luogo del delitto rischiano di essere state inventate per acquisire credibilità o denari, possono essere state mal interpretate soprattutto se tradotte dal pashtun o dal farsi all’inglese, possono semplicemente essere false, possono essere parzialmente vere, ma largamente imprecise.



 

Uno dei 92mila dossier datato 27 ottobre 2008 descrive, ad esempio, un possibile attentato contro gli italiani nel villaggio di Siahvashan progettato da sette esponenti arabi di Al Qaida con l’appoggio di quattro pasdaran iraniani. Nessuno spiega quale sia il legame tra Al Qaida e pasdaran, chi lo gestisca e tanto meno se in seguito siano state raccolte altre prove o se l’attentato sia stato sventato. Esiste solo quel file in base al quale ogni interpretazione è possibile.

 

La ricerca della verità – sia nel campo dell’intelligence come in quello del giornalismo – non si basa solo sull’accesso alle fonti e ai documenti, ma anche sulla capacità di analizzarli, confrontarli e costruire una trama capace di farci comprendere lo svolgimento degli eventi e le strategie. La verità offertaci da Wikileaks e dal suo fondatore Julian Assange assomiglia invece alle tessere scompagniate di un mosaico di cui nessuno riesce più a ricostruire o anche soltanto intuire la forma originale.