Quando in Afghanistan regnava mullah Mohammed Omar, Amir Al-Mu’minin, il capo dei tutti i credenti, ho avuto la ventura di passare un mese con i talebani. A Jalalabad, il capoluogo commerciale sulla strada che da Kabul porta a Peshawar, attraverso il leggendario Kyber pass, maulawi Naik Mohammed era il “simpatico” capo della polizia religiosa. Volevo capire se i pasdaran di Allah convincevano veramente a scudisciate i bottegai afghani del bazar a chiudere la saracinesca per andare a pregare, le cinque canoniche volte al giorno previste dal Corano.
Trentadue anni, omaccione, barbone nero come la pece e turbante bianco, colore dei martiri musulmani, maulawi Naik, come primo approccio mi chiese se ero “kafir”, ovvero “infedele”. Gli risposi che ero peccatore, ma credevo in Gesù Cristo che i musulmani tengono in considerazione. Nell’occasione sfoderai un perfetto verso del Corano sull’argomento, che lo colpì molto.
Da buon poliziotto del Dipartimento per prevenire i vizi e favorire le virtù ci mise ancora più impegno a tentare di convertirmi. Vestito con la tunica e i pantaloni a sbuffo come lui, con una barba adeguata e un tipico turbante pasthun gli sembravo la pecorella smarrita giusta da riportare all’ovile. Seduti a terra a gambe incrociate nel “commissariato” della polizia religiosa andammo avanti per un’ora a discutere di religione sorseggiando una tazza dopo l’altra di chai, il tè afghano senza zucchero.
La conversione fallì, ma non il mio reportage. All’ora della preghiera Naik Mohammed ordinò secco ai suoi uomini che bisognava cominciare il giro per rammentare a frustate alla gente l’ora della preghiera. A quel punto chiesi rispettosamente di seguire la banda scalcinata di agenti armati di Kalashnikov, che calzavano sandali rudimentali e portavano i classici turbanti neri dei talebani.
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Il capo mi guardò con sospetto e poi grugnì un sì, ma non sui fuoristrada “armati” di megafoni, che servivano a richiamare la gente in moschea. Dovevo seguire la polizia anti vizio su un risciò a motore, perché, come spiegò seriamente Naik Muhammad, ero “un infedele” e non potevo “appoggiare il mio fondo schiena su uno dei mezzi sacri delle truppe del Profeta”.
Gli otto volontari stranieri e due afghani trucidati la scorsa settimana in Afghanistan sono probabilmente finiti in un’imboscata organizzata da ladroni, che spesso vestono i panni dei talebani e viceversa. La zona la conosco bene. Nel 1987 tornavo a piedi proprio dalla provincia di Badakshan, verso il Pakistan, dopo aver seguito per due mesi e mezzo il comandante Ahmad Shah Massoud e i suoi mujaheddin in un’epica battaglia contro i sovietici. Per mia sfortuna venni catturato dai governativi e prelevato dai paracadutisti russi, ma l’area, ieri come oggi, era infestata da bande dell’Hezb i Islami, il partito fondamentalista in armi di Gulbuddin Hekmatyar. Uno dei più velenosi signori della guerra afghani alleato di comodo dei talebani.
Non a caso pure l’Hezbi ha rivendicato l’uccisione degli occidentali. Sicuramente non erano spie e neppure “predicatori” con la sola missione di convertire gli afghani. Però non metterei la mano sul fuoco che non avessero delle Bibbie in dari. Dirk Frans, responsabile dell’Iam, l’organizzazione umanitaria da 30 anni in Afghanistan ha ammesso che va sempre in giro con la Bibbia e ne ha buon diritto. Il simbolo dell’International Assistance Mission è il globo con la croce stilizzata.
Il veterano della spedizione, pure lui ucciso, era Tom Little, un oculista di Delmar, nello stato di New York, che conosceva l’Afghanistan da 30 anni. Nel 2001 era stato espulso dai talebani dopo l’arresto di otto volontari cristiani accusati di proselitismo. Un reato, che ancora oggi in Afghanistan, prevede la pena di morte anche da parte dei governativi.
In Afghanistan fanno una vita da catacombe un migliaio di convertiti grazie a personale delle ong, cappellani militari stranieri e “missionari” clandestini soprattutto evangelici o battisti. Fra maggio e giugno sono stati denunciati da uno scoop su una televisione privata 25 afghani convertiti al cristianesimo a Kabul. Altri 150 sono fuggiti nella vicina India per evitare la pena di morte.
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Le fotografie dei 25 mostrano gli afghani che pregano in una specie di “chiesa” ricavata in un appartamento. Tutti indossano una tunica bianca. Uno viene “battezzato” con un secchio d’acqua versato sulla testa, un altro, che ha una gamba artificiale, è immerso in una vasca da bagno. Nel gruppo c’è anche una donna dai capelli neri.
La televisione privata mostra anche delle fotografie di “missionari”, che starebbero convertendo gli afghani. Un norvegese e un americano, di due ong cristiane a Kabul, che però hanno negato tutto sostenendo di aver “voluto solo aiutare la povera gente”. Non a caso gran parte dei convertiti sono sciiti Hazara, una delle etnie più maltrattate e deboli del paese. Almeno 13 ong straniere a Kabul, di stampo cristiano, sono nel mirino del governo.
Anche traduttori e collaboratori dei militari stranieri, a cominciare dagli americani della grande base di Bagram, sono stati irretiti dalla conversione. Non esiste alcun “piano dei crociati”, come tuonano i talebani. Singoli cappellani militari o soldati portano con loro qualche volantino, un Vangelo o una Bibbia di troppo. Talvolta convincono i giovani afghani che usano il computer a iscriversi a delle newsletter cristiane. Oppure a sintonizzarsi sui canali satellitari dei telepredicatori americani.
Padre Giacomo Rossini, che a Kabul lavora con le suore di Madre Teresa evitando scrupolosamente il proselitismo ha dichiarato subito dopo la tragedia dei volontari: “Non si può fare propaganda cristiana. È una cosa che per noi può apparire difficile da comprendere, ma questa è la situazione in Afghanistan. Se si diffondono bibbie in lingua dari si rischia la vita, si va incontro alla morte”.