La prima cosa che colpisce di Baku, la capitale dell’Azerbaijan, è l’opulenza un po’ pacchiana della sua architettura. La quantità di nuove costruzioni, in uno stile che definirei “neo-moresco” la fa assomigliare a una versione caucasica, appena un po’ più europeizzata, di Abu Dabi. Certo, il Caspio non è il Golfo Arabico e lo struscio serale sul lungomare illuminato da mille luci di Baku fa venire più in mente una versione laica dell’Iran (o una più “pia” del Kazakistan, scegliete voi) che non un emirato arabo. Ma la sensazione che gli Azeri siano seduti su un mare di gas e petrolio è molto forte. Baku è l’unica città che io conosca in cui i pilastri della sopralevata che arriva dall’aeroporto sono rivestiti in marmo policromo.



L’atmosfera che si respira è quella di una città ricca e tutto sommato sicura, anche grazie all’illuminazione a giorno dei distretti centrali. Ovunque campeggiano ritratti dello scomparso presidente della Repubblica Heydar Aliyev, già primo segretario del Partito Comunista ai tempi dell’URSS, nonché padre dell’attuale presidente Ilham Aliyev. Quasi a ricordarci che siamo comunque di fronte a un sistema politico molto lontano dagli standard della democrazia europea. Proprio la figura di Heydar Aliyev è legata alla provvisoria sistemazione di quello che rappresenta il maggiore trauma nazionale nella storia dell’Azerbaijan indipendente.



Ovvero la perdita della regione del Nagorno-Karabakh, ad opera degli Armeni. La guerra che dal 1991 al 1994 ha insanguinato la regione è costata oltre 30.000 morti e 100.000 feriti ai contendenti, e un numero gigantesco di profughi. Si calcolano in 700.000 gli azeri sfollati dalle zone di guerra, uno su nove, compresi i bambini che giocano in uno dei campi profughi della capitale che siamo andati a visitare, quello dove sono stati riuniti gli sfollati del distretto di Binagadi.

Questi bambini che giocano alla guerra con delle imitazioni giocattolo di fucili a pompa inquietanti nella loro accuratezza, sono anche loro profughi, sia pure da una terra che non hanno mai visto e che, forse, non vedranno mai. Avranno cinque o sei anni, e sono ospitati in un vecchio dormitorio per studenti universitari dell’era sovietica. Una serie di palazzi raccolti intorno a un cortile il cui cielo è ingombro di fili elettrici e panni stesi ad asciugare, mentre sotto, alcuni giovani giocano a backgammon, mentre gli anziani sorseggiano il te, sorvegliando svogliatamente della lana appena cardata. Il campo ricorda in chiave meno claustrofobica quello palestinese di Chatila, alla periferia di Beirut. Ma qui la provvisorietà appare più marcata.



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Non c’è traccia dei piccoli lindi asili, o delle scuole primarie con i muri ricoperti di disegni colorati, di quel campo palestinese, tristemente noto per i massacri di tanti decenni fa. Lì, sembrava di essere capitati in una sorta di universo robinsoniano, in cui il mondo esterno era riprodotto in scala ridotta ma il più possibile simile a quanto perduto: a causa di un naufragio, per l’eroe di Defoe, per colpa delle guerre perdute, per i palestinesi.

 

Qui, la dimensione della disperazione individuale, o quantomeno dello scoramento e della rassegnazione sembra prevalere. Il distretto di Binagadi è una delle sette province perse dall’Azebaijan insieme al Nagorno-Karabakh. Il tragico paradosso è che queste regioni erano al confine con l’Armenia ma, al contrario del Nagorno-Karabakh, erano abitate quasi esclusivamente da Azeri. Ora in nessuna delle regioni perdute vive più alcun azero.

 

Shafiga è una di questi profughi; vive in poco più di 16 metri quadrati, insieme al marito e ai figli. I bagni sono in comune con gli altri inquilini del piano, la cucina è condivisa dall’intero palazzo, a ricordarci che questa struttura era originariamente destinata a pensionato universitario. L’unica finestra dà su un terrazzino convertito in ripostiglio, dove sono letteralmente stipate le provviste fatte di conserve artigianali di cetrioli e pomodori, qualche sacco di cipolle e di patate. E l’essenziale che si può accumulare in così pochi metri e in così tanti anni di vita provvisoria.

 

Si soffoca letteralmente nel monolocale dal soffitto basso. Di fronte, sul vetro di una credenza stile anni ’60, le foto di Shafiga il giorno del matrimonio e della coppia sullo sfondo di un paesaggio lussureggiante fatto di acqua, colline e boschi. Le foto di un rimpianto, della vita com’era “prima”, prima della guerra, dell’orrore, della fine del tempo che scorre e del principio del tempo immobile.

 

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Ma questo tempo è immobile solo per quello che ha spezzato dentro i cuori, per il futuro che ha dissolto e congelato insieme. Ma è un tempo che corre comunque verso il suo scontato epilogo. «Vorrei poter andare a vistare le tombe dei miei padri, e morire nella terra in cui sono nato», racconta Adil Ismail, maestro di scuola di settant’anni, che sente la morsa del tempo stringerlo dappresso. Alì vive in un altro e diverso campo: un “campo modello”, si potrebbe dire, appena consegnato alle famiglie di un altro distretto, che per quindici anni sono state “ospitate”, ma accantonate è la parola che rende meglio l’idea, in una fabbrica dismessa.

 

Qui tutto è lindo, nelle belle case azzurro cielo, dotate di aria condizionata e di un arredamento standard piccolo borghese, che avrebbe rappresentato l’orizzonte della felicità materiale per tante famiglie di immigrati del Sud all’inizio degli anni Sessanta. «I proventi della vendita delle risorse energetiche sono in parte investite in progetti come questo», “piega Garay Faradiov, del Dipartimento per i Rifugiati, «ma il vero problema è che queste persone sono da decenni prive di possibilità concrete di lavoro e di integrazione sociale».

 

Chi può, chi trova un lavoro, se ne va dai campi e mette su famiglia in città. Ma è una prospettiva difficile da realizzare. In un Paese che comunque dà l’impressione di avere un’economia sostanzialmente ancora controllata dallo Stato o, per lo meno, dagli eredi della vecchia nomenclatura sovietica.

 

Abbandonata la capitale, procedendo per una strada tanto incantevole quanto precaria, ai piedi delle grandi catene montuose del Caucaso meridionale, si arriva al confine georgiano, non senza aver prima visitato una delle “ex capitali”, con il suo splendido caravan-serraglio trasformato in un albergo molto confortevole. Il confine con la Georgia è un confine aperto e “amichevole”. Nondimeno, il suo attraversamento richiede molte ore alla “carovana” di Rondine.

 

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Tra gli studenti ci sono ceceni e russi, i cui concittadini hanno dato manforte ai ribelli di Abkazia e Ossetia, e il rilascio dei loro visti, nonostante l’imprimatur ottenuto dalla autorità centrali georgiane, consuma tempo. Ancora una volta il tema del tempo ricorre. Qui, davvero, sembra che tutti ne abbaino da sprecare o che, perlomeno, siano rassegnati al fatto che il tuo tempo è spesso ostaggio nelle mani di qualcun altro, che ne dispone a suo piacimento.

 

Ripenso a Milano e ai nostri ritmi frenetici. Ma soprattutto mi capita di riflettere come l’idea che il tempo sia un bene prezioso, raro, il regalo più grande da fare a qualcuno, e la concreta possibilità di pensare a questo come un diritto di chiunque, mi sembra una delle grandi acquisizioni rese possibili dalla democrazia occidentale. È forse la maggiore e principale promessa di eguaglianza sostanziale che siamo stati capaci di realizzare.

 

Tra i due check point stanno un centinaio di metri di terra di nessuno, colmati da un ponte su cui sostano una decina tra furgoni, auto e camion dal colore indefinibile e dalla marca improbabile. Tanto il posto di controllo azero sembra essere uscito da un action movie post guerra fredda – di quelli che prospettavano incredibili traffici di armi e minacce terroristiche che, allora, ben prima dell’11 settembre, apparivano fantasiose – tanto quello georgiano ricorda in tutto e per tutto, a parte le dimensioni, il confine tra Messico e Stati Uniti. E in effetti, come spiega con dovizia di particolari un grande cartello multicolore, il check point georgiano è un “dono dell’Esercito degli Stati Uniti”.

 

(2 – continua)

 

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