Che la vita umana abbia un valore straordinario e meriti tutto l’impegno che la scienza può mettere in campo per migliorarne la qualità e renderla più vivibile è un fatto che nessuno si sogna di mettere in discussione. Investire in qualità di vita significa per chi fa ricerca bio-medica prevenire le malattie, intervenire precocemente per limitarne i danni, curare sempre, anche quando non si può guarire in modo definitivo. Da sempre la scienza ha sfidato pregiudizi e luoghi comuni, ha forzato le barriere del conformismo intellettuale per individuare possibilità e prospettive laddove molti credevano che ci fosse posto solo per una rassegnata accettazione della morte.



La passione per la ricerca scientifica è per molti un vero e proprio imperativo categorico, una specie di organizzatore della condotta, a cui sacrificano tempo, energie, interessi personali e a volte anche affetti. Forse non avranno mai la soddisfazione di scoprire quella pietra filosofale che li renderà famosi, ma sanno che il loro contributo può essere prezioso per innescare un cambiamento di rotta, per aprire nuove strade, su cui poi magari saranno altri a fare “la scoperta che conta”. C’è ancora oggi in tutto il mondo un esercito di ricercatori, molto spesso sottopagati, con prospettive di carriera limitate, che pure si ostina ad affrontare giorno per giorno quell’oscuro lavoro di laboratorio, quelle lunghe ore di biblioteca, quel navigare a vista su internet alla ricerca del dato mancante…



Sono mossi dalla speranza e non si rassegnano come fanno coloro che credono che in certi casi e in alcuni campi ormai non ci sia più nulla da fare. La loro umiltà paziente intercetta un’audacia intelligente che riesce a trovare soluzioni generalmente impensabili per la maggioranza delle persone. In definitiva il loro è una grande e continuo atto di fiducia nell’intelligenza umana che pongono al servizio dell’umanità. Dietro l’apparente retorica di queste parole c’è però la dimensione essenziale dell’etica della ricerca che in modo più o meno consapevole connota l’agire della maggioranza degli scienziati. L’intelligenza umana come motore di una ricerca che ha come unico fine il bene comune.



Eppure ogni tanto la macchina si inceppa e la ricerca diventa pigra, ripetitiva, senza quello slancio che la spinge verso sentieri nuovi e coraggiosi. Si innesca una sorta di coazione a ripetere per cui le ricerche diventano tutte scialbamente simili tra di loro; i ricercatori sembrano mossi più dalla necessità di dover giustificare il proprio ruolo che non da una effettiva passione creativa. La pigrizia dell’intelligenza corrompe dal di dentro quello che dovrebbe essere il tesoro prezioso di una ragione al servizio della ricerca. Ma la macchina può incepparsi anche quando il motore che muove l’intelligenza non è più rappresentato dal bene comune, ma da interessi personali di vario tipo: economici, legati alla propria fama e al proprio successo, ecc…

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Diventa facile allora assistere a situazioni paradossali che tentano di giustificarsi pur non avendone i requisiti essenziali e allora vengono meno nello stesso tempo sia l’etica dell’intelligenza, che l’etica dei rapporti umani; sia l’etica che anima uno sviluppo sostenibile, che l’etica dell’informazione. Una debacle complessiva figlia del relativismo del nostro tempo, che si aggrappa disperatamente alla tutela di diritti individuali, che prescindono vistosamente dalle responsabilità sociali che pure dovrebbero avere.

 

 

E’ quanto è accaduto in questi giorni negli USA a proposito della decisione presa dalla FDA, Food and Drug Administration, che ha autorizzato una serie di esperimenti con cellule staminali embrionali in pazienti affetti da gravi lesioni midollari, con l’obiettivo di accelerare processi di tipo riparativo. Le procedure saranno sviluppate in collaborazione dalla Geron Corporation e dall’Università della California, di Irvine. Molti i motivi di perplessità che inducono a pronunciare un giudizio fortemente negativo su questa decisione della FDA. Può essere utile schematizzare almeno i principali, cominciando da quelli di natura scientifica, per arrivare gradatamente a quelli di natura etica e scoprire che gli uni e gli altri sono le due facce di una stessa medaglia.

 

 

Il primo motivo di critica ha un carattere generale che è facilmente ricavabile da tutta, ma proprio da tutta, la letteratura scientifica sull’argomento: nessun risultato positivo si è mai ottenuto in nessun laboratorio scientifico del mondo utilizzando le cellule staminali embrionali. Anzi ciò che emerge continuamente in quei laboratori che da anni utilizzano cellule staminali embrionali è che proprio la loro totipotenza le sottrae al controllo del ricercatore, che molte volte assiste ad una loro riproduzione indifferenziata che presenta caratteri di tipo tumorale.

 

 

Il secondo motivo di perplessità nasce direttamente dal precedente e ha una sua puntuale collocazione nello spazio e nel tempo. Solo pochi mesi fa, dopo aver ricevuto nel gennaio 2009 l’autorizzazione della FDA per procedere nella ricerca con le staminali embrionali, la sperimentazione aveva dovuto essere interrotta perché nei ratti utilizzati come cavie erano apparse delle cisti, che avevano destato gravi preoccupazioni.

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 Il terzo motivo di perplessità, che apre la pista ad un sospetto ben preciso, nasce dalla rapidità con cui solo dopo pochissimi mesi la Geron sostiene di aver sviluppato una tecnica migliore per rendere più pure le nuove cellule. In realtà la Geron, fortemente interessata ad ottenere dei brevetti industriali per la produzione di cellule staminali embrionali, non dà affatto le informazioni necessarie a capire né perché si fossero prodotte delle cisti nei ratti trattati in precedenza, né cosa sia effettivamente accaduto ai nuovi ratti trattati con le nuove cellule. Sembra che la loro ipotesi attribuisca alla impurezza delle cellule l’effetto-cisti, mentre nella interpretazione scientificamente più accreditata è la cellula staminale embrionale in se stessa che appare poco controllabile e quindi scarsamente utilizzabile in una attività di tipo clinico.

 

Un quarto motivo di perplessità nasce dalla mancanza di garanzie che si offrono ai malati dal momento che neppure sui ratti sono stati ottenuti risultati soddisfacenti. Sembra che in tempi di iperprotezionismo degli animali, con una campagna di stampa vivace ed incisiva che li vorrebbe escludere totalmente dalle sperimentazioni cliniche, la sperimentazione sull’uomo susciti meno dubbi e richieda meno tutele. Proteggere gli animali è doveroso, farli soffrire inutilmente è crudele, abusare di loro con esperimenti privi di fondamento è sciocco. Fare tutto ciò sull’uomo è disumano.

 

Un quinto motivo di perplessità nasce dalla ipotesi che a questi pazienti o ai loro familiari sia stato chiesto l’indispensabile consenso informato. Ci si chiede in altri termini quale tipo di pressione sia stata esercitata su di loro per farli acconsentire ad una sperimentazione che allo stato attuale delle cose è destituita di ogni fondamento. Parlare di consenso informato in questi ultimi tempi è cosa molto seria che ha anche chiare implicazioni anche sotto il profilo medico-legale. Abbiamo assistito recentemente alla totale ideologizzazione del principio di autodeterminazione che è diventato il criterio guida dell’agire nel rapporto medico-paziente.

 

A tal punto che in alcuni casi assistiamo ad un vero e proprio ribaltamento del principio di cura, per cui il malato può chiedere e pretendere dal medico la applicazione del diritto al rifiuto delle cure. Con quale obiettività scientifica sono stati informati questi pazienti, quali speranze sono state fatte balenare davanti a loro e ai loro familiari, quali condizionamenti sono stati esercitati su di loro perché aderissero a questo protocollo così poco rigoroso anche sotto il profilo clinico… Sono domande che vanno poste anche per sapere in che modo è stato creato il gruppo di controllo che servirà a capire la differenza tra vecchio e nuovo trattamento…

 

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Un sesto motivo di perplessità nasce proprio da questo interrogativo. Si è detto che l’obiettivo è quello di ripristinare la piena funzionalità delle connessioni nervose, riparando completamente la lesione che le impedisce. Molti anni fa, nel 1986, Rita Levi Montalcini conseguì il premio Nobel per le sue ricerche sul NGF che conduceva dagli anni 50. Il Nerve growth factor è una proteina coinvolta nello sviluppo del sistema nervoso in cui indirizza e regola la crescita degli assoni, tramite meccanismi di segnalazione cellulare. Nella motivazione del Premio si legge: «La scoperta del NGF all’inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo».

Sono ricerche condotte da molti anni, con molta prudenza, e indubbiamente con buoni risultati. Recenti ricerche condotte da Ebri-Cnr, in collaborazione con Regione Lazio e Filas Spa, chiariscono le proprietà anti-Alzheimer del NGF, il fattore di crescita nervoso. L’NGF inoltre è da tempo sperimentato con successo nelle ulcere oculari e cutanee, di cui facilita la cicatrizzazione. Le ulcere oculari e le ulcere cutanee rappresentano un problema di notevole impatto sociale, clinico ed economico per il servizio sanitario nazionale: si tratta di patologie molto diffuse, in gran parte prive di terapie.

Il sistema nervoso è un sistema complesso proprio perché si tratta di cellule altamente specializzate, con un bassissimo coefficiente di riproduzione, come sanno tutti i neurobiologi e i neurologi che si occupano di questi malati e di queste malattie. Per questo la sperimentazione sull’uomo e specificatamente sul sistema nervoso delle cellule embrionali appare come minimo intempestivo e scientificamente non fondato.

 

Un settimo motivo di perplessità nasce poi dalla provenienza di queste cellule, che per loro stessa natura richiedono un vero e proprio smontaggio dell’embrione umano nelle sue fasi più precoci, quelle in cui tutte le sue cellule sono totipotenti. Questo smontaggio dell’embrione altro non è che la soppressione di una vita umana e come tale crea il terribile paradosso di chi sopprime una vita per curarne un’altra, senza che della prima si rispetti il diritto alla vita, senza che gli si riconosca il diritto all’autodeterminazione, senza che possa dare il suo consenso informato e neppure fare una sorta di testamento biologico. Il tutto in flagrante contraddizione con quanto la stessa cultura dei diritti individuali oggi sostiene.

 

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Un soggetto totalmente strumentalizzato, una sorta di novella schiavitù umana, in cui qualcuno si arroga il diritto di stabilire chi deve vivere e chi no, facendo una operazione di maquillage scientifico priva di credibilità, dietro la quale si nascondono più banali operazioni di marketing biologico. Banali, ma con quella banalità del male che a volte può produrre effetti deflagranti proprio per quella sua apparente indifferenza alle due domande chiave per ogni uomo in genere e per un ricercatore in particolare. La domanda sul perché e la domanda sul come, le eterne domande sui fini e sui mezzi, sapendo che c’è un’etica del fine e un’etica dei mezzi e che se il fine non giustifica il mezzo, neppure il mezzo può giustificare il fine.

 

Ecco perché è facile dire un no a tutto campo a questa sperimentazione, senza timore di essere tacciati di crudeltà perché si sottrae ai malati una speranza di migliorare la loro qualità di vita, perché in realtà si tratta di una falsa speranza, contrabbandata per altri fini e altre ragioni, che nulla hanno a che fare con il bene del soggetto. L’embrione smontato in pezzi e il malato con gravi lesioni spinali, secondo la scala di valutazione Asia (American Spinal Injury Association), sono entrambi vittime di una mentalità molto diffusa che, mentre si nutre di uno sfacciato relativismo etico, in realtà persegue esclusivamente obiettivi di natura economica, come bene sa la Geron Corporation.

 

La Geron infatti ha brevettato da alcuni anni un ceppo di cellule staminali embrionali, da lei trattate e indicate con la sigla Grnopc1, derivare dalle cellule progenitrici degli oligodendrociti, ossia delle cellule nervose che avvolgono, come una guaina, i lunghi filamenti che collegano le cellule nervose.