Miguel H. Diaz, Ambasciatore degli Stati Uniti d’America presso la Santa Sede, è intervenuto al Meeting di Rimini in un incontro dedicato ai temi dell’identità e della convivenza. Ilsussidiario.net lo ha intervistato per approfondire alcuni spunti emersi nel suo discorso e per parlare con lui di Benedetto XVI e della politica di Obama.



Ambasciatore Diaz, nel suo intervento ha parlato d’integrazione. Perché è importante l’esperienza degli Stati Uniti in questo campo?

 

Ho parlato del principio che sta alla base della convivenza negli Stati Uniti: E pluribus unum. Negli Stati Uniti abbiamo sempre dato accoglienza, lungo tutta la nostra storia, a una grande diversità; essa si è rivelata un fattore molto positivo, perché ci ha dato l’opportunità di entrare in rapporto con gli altri e quindi di capirli e convivere. Queste cose sono importantissime oggi, non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo, perché tutti abbiamo bisogno di costruire ponti fra le diverse comunità.



Ha qualche esempio positivo di questa convivenza da raccontarci?

 

Certo: il primo, innanzitutto, è quello della mia famiglia. Mia moglie ed io ci siamo conosciuti alla Notre Dame University, in Indiana. Lei era del Mid-West, io invece venivo dalla Florida. In famiglia viviamo un’esperienza di rapporto, pur nella diversità: la nostra storia, i nostri precedenti, la lingua. Come potete vedere, la mia stessa storia è una storia di relazione nella diversità.

Questo è possibile anche a livello sociale, nel rapporto tra diversi gruppi e culture? Potrebbe farci altri esempi? Lei è un cattolico americano con origini cubane…



 

La mia storia, in effetti, testimonia la grande complessità della Chiesa americana. La Chiesa cattolica negli Stati Uniti ha un gran numero d’ispanici, di asiatici, di americani, di italiani, di afroamericani, di polacchi, ed altri ancora. In questo modo si vede che il principio E pluribus unum è parte anche dell’esperienza della Chiesa. È immediato percepire nella società degli Stati Uniti una grande ricchezza e una grande potenzialità, una società che ha dentro di sé anche le esperienze della Chiesa Cattolica e di altre religioni. Queste esperienze ci aiutano a tendere i ponti di cui oggi abbiamo bisogno.

Cosa può tenere in piedi i “ponti” così necessari che ha citato? Il titolo del Meeting parla del cuore come natura di tutti gli uomini…

 

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Nel mio intervento ho ripreso le parole de Il piccolo principe di Saint-Exupéry: in questa storia famosissima si parla di un modo diverso di vedere, uno sguardo che va di là del semplice vedere con gli occhi. Il cuore ci apre a tutti gli altri. Oggi, se vogliamo entrare in relazione gli uni con gli altri, è necessario tenere continuamente presente questo cuore di cui parla il Meeting.

 

Nella sua ultima visita in America, Benedetto XVI ha valorizzato il modello americano di laicità “positiva e aperta” dei Founding Fathers. Questo modello rimane ancora forte, oppure dopo due secoli stiamo assistendo, come dicono alcune voci critiche, a un avvicinamento a modelli più europei in cui lo stato si limita a “permettere” l’esistenza di realtà religiose?

 

Prima, mentre parlavo, ho citato il libro del Presidente Obama, The audacity of hope. In questo libro il Presidente descrive in maniera molto positiva il suo servizio di volontariato a Chicago e l’influenza della religione sulla sua formazione. Obama ha sottolineato in parecchie occasioni l’importanza della fede e dell’impegno al servizio del prossimo. Lui stesso ha sperimentato all’interno della chiesa afroamericana e nelle esperienze di Chicago questa correlazione, e questa unità. Tutte queste cose, nella figura di un leader politico come il Presidente Obama, mi hanno offerto l’opportunità di vedere l’importanza del rapporto tra le esperienze personali e il servizio che ognuno, partendo da quelle esperienze, può fare alla società. Il Presidente ha valorizzato sempre questa correlazione. La storia americana non si può pensare al di fuori di questo rapporto.

 

Lei prima ha parlato della sua esperienza in famiglia come di una sorta di “scuola” di convivenza. Qual è, secondo lei – che ha anche insegnato per parecchi anni – il ruolo che ha l’educazione nel costruire ponti tra le persone?

 

È molto importante sfidare gli studenti e invitarli a pensare criticamente, insegnargli a pensare più globalmente. Si tratta di aprire le menti e i cuori per invitare gli altri ad affrontare le differenze umane non come qualcosa che ci separa, ma come qualcosa che mette le comunità e la famiglia umana in rapporto. Questo è essenziale quando insegni. In molte occasioni ho detto ai miei alunni che lo spazio della classe e più ampio del perimetro delle sue mura: bisogna che ci sia un rapporto tra quello che è insegnato nelle classi, nelle università, e lo spazio più ampio della città, della nazione e del mondo intero. La saggezza consiste nel mettere in rapporto la classe o la realtà locale con un orizzonte più ampio, quello della società.

 

Un’ultima curiosità: dopo dieci mesi che è a Roma e che, quindi, è più vicino al Papa, cos’è che l’ha colpita di più della sua persona?

 

In una battuta non è semplice rispondere! Una cosa mi resterà sempre nel cuore: il suo sorriso, quando mia moglie ed io gli parliamo dei nostri bambini.

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