Il referendum che ha sancito ieri la vittoria dei “sì” per l’introduzione di importanti modifiche alla Costituzione sottolinea, una volta di più, l’interessante dinamismo che sta conoscendo la Turchia. Un dinamismo a volte controverso, difficile da interpretare in maniera univoca e in tutti i suoi aspetti. Ma certamente con Ankara la geopolitica del XXI secolo dovrà fare i conti direttamente e costantemente. Significativamente, la consultazione referendaria è avvenuta nel giorno del 30° anniversario del colpo di Stato militare da cui la Costituzione è nata.
La Carta, entrata in vigore nel 1982, è infatti frutto del sollevamento militare del 1980 e ne incarnerebbe, secondo i suoi sostenitori, i principi ispiratori: democrazia, laicità e fedeltà al nazionalismo di Ataturk. Se secondo l’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del premier Recep Tayyip Erdogan il referendum costituisce una buona opportunità per garantire maggiore democrazia e mettere il Paese in linea con gli standard dell’Unione europea in vista di una eventuale adesione, secondo l’opposizione si tratterebbe di una manovra per limitare il potere dell’establishment laico in favore della nuova classe dirigente di ispirazione islamica, conservatrice e moderata.
Tra le modifiche introdotte attraverso il referendum figurano richiami ai principi di uguaglianza tra sessi, di “discriminazione positiva” verso persone che hanno bisogno di tutela civile come bambini, disabili e anziani, la creazione della figura del difensore civico, il contratto nazionale di lavoro, il diritto allo sciopero nel pubblico impiego e altre tematiche sociali. Ma gli emendamenti più controversi sono quelli che rimandano all’architettura istituzionale e, quindi, al rapporto tra poteri dello Stato.
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Questi sono stati, negli ultimi mesi, oggetto di un violento scontro politico tra l’AKP e il principale partito di opposizione del CHP (Partito repubblicano del popolo), guidato da Kemal Kilicdaroglu. Secondo la posizione del CHP la riforma porrebbe sotto il controllo dell’esecutivo il potere giudiziario e quello militare, garanti della laicità dello stato turco, al fine di rafforzare il partito al governo. Le modifiche portata avanti dal premier Erdogan e dal suo partito ambiscono, dunque, a ridimensionare radicalmente le competenze di militari e magistratura.
Per quanto riguarda quest’ultima, le modifiche costituzionali riguardano il numero e la scelta dei membri della Corte Costituzionale, la durata dell’incarico degli stessi (12 anni al massimo invece che fino al compimento dei 65 anni) e, soprattutto, la possibilità di ricorso individuale alla Corte e di controllo giurisdizionale delle decisioni del giudice da parte del Parlamento. Per quanto riguarda i militari, invece, si assisterà a un cambiamento radicale del sistema di giustizia: la competenza dei tribunali militari verrà, infatti, limitata al trattamento dei reati minori, mentre reati contro la sicurezza dello Stato e l’ordine costituzionale verranno trattati esclusivamente dalla magistratura civile.
Negli ultimi anni la Turchia ha assistito alla massiccia epurazione di alti ufficiali dell’esercito implicati in vario modo nell’affaire Ergenekon (la cosiddetta “Gladio turca”) e Beyloz, un disegno di attentati contro le minoranze religiose da addebitare alle componenti islamiche radicali, allo scopo di rovesciare l’attuale governo, scoperto nello scorso mese di febbraio. A seguito dell’esautorazione degli alti ufficiali, a Capo di Stato Maggiore della difesa è stato nominato appena un mese fa il generale Isik Kosaner. La nomina del generale, rimasto al di fuori dalle diatribe tra i vertici dell’esercito e l’attuale governo, rappresenta, in questo contesto, la vittoria del nuovo ordine moderato, conservatore e civile, sul vecchio ordine, militare, secolare e kemalista.
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Tra i cosiddetti “Paesi emergenti”, protagonisti della nuova geometria allargata delle relazioni geopolitiche e geoeconomiche internazionali, la Turchia presenta i profili di un dinamismo particolarmente intenso. Tra assi tradizionali di collaborazione e nuovi orientamenti strategici, il Paese sembra alla ricerca di una nuova identità, dopo il suo chiaro posizionamento nel cinquantennio della Guerra Fredda. Il dibattito in corso tra alcuni analisti internazionali, che pongono il tema in termini di dilemma tra una deriva islamica della Turchia e il tradizionale filoatlantismo ed europeismo è riduttivo e superficiale.
La complessità socio-economica della Turchia ne fa un attore geopolitico imprescindibile, dotato oggi, a differenza del recente passato, di una sua autonomia strategica e di una nuova dottrina pienamente riconoscibile. Molti nodi della storia recente turca rimangono da sciogliere, soprattutto se si osserva il delicato equilibrio tra poteri dello Stato che la tradizione kemalista ha lasciato in sospeso. Dopo la caduta del Muro di Berlino, Ankara ha sostanzialmente investito tutta la sua rendita geopolitica sul dossier della possibile adesione all’Unione europea. Un’ambizione che rimane ancora il principale orizzonte politico del Paese.
Ma, a fronte di un processo di allargamento dello spazio dell’Ue che ha creato più ostacoli che privilegi alla domanda turca, il governo di Erdogan ha assunto un atteggiamento improntato al maggior realismo politico: i negoziati proseguono secondo un’agenda tecnica già fissata, rinunciando ai privilegi di una adesione “politica”, ma la Turchia si presenterà a quell’appuntamento con una sua forte struttura-Paese, con degli orientamenti consolidati e, soprattutto, con un’agenda geopolitica che spetterà poi all’Europa valutare e, eventualmente, incorporare.