Il ritiro delle truppe Usa dall’Iraq giunge in un momento in cui gli attentati nel Paese si sono ridotti di dieci volte rispetto al 2007. Ma sono ancora tanti i problemi da risolvere, in primo luogo gli attacchi alle minoranze cristiane, che nelle regioni settentrionali si sentono così abbandonate da sentire l’esigenza di armarsi per garantire la loro incolumità. Come spiega l’inviato del Giornale, Fausto Biloslavo, nel dichiarare conclusa la missione Iraqi freedom Barack Obama dimostra di essere più preoccupato del consenso dei suoi elettori che non impegnato a presidiare gli scenari più caldi del mondo. Ma anche l’azione del suo predecessore George W. Bush, che pure è stato ringraziato pubblicamente dal leader democratico, non è stata immune da errori.
Come valuta la decisione di Obama che ha dichiarato conclusa la missione Iraqi freedom?
Se la missione è conclusa lo si deve a Bush. I media italiani non hanno ripreso questo passaggio del discorso, ma Obama lo ha ammesso pubblicamente: la svolta è avvenuta grazie ai rinforzi voluti da Bush e dal generale David Petraeus. Ammesso che la missione sia veramente conclusa: io penso che in realtà non lo è, anche perché ci sono ancora 50mila soldati americani sul territorio irakeno. Ci resteranno ancora per un anno e c’è sempre qualche gatta da pelare per quanto riguarda la sicurezza dell’Iraq. Ma la mia sensazione è che Obama si stia preoccupando più delle elezioni di Midterm che non degli scenari più caldi della politica internazionale. Da tempo sostengo che le sue scelte sono legate soprattutto alla politica interna, da cui si sta facendo condizionare più del dovuto anche nelle decisioni di politica estera.
Condivide comunque il bilancio della missione formulato da Obama, che ha dichiarato che la sicurezza in Iraq è aumentata?
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La sicurezza è aumentata, però i pericoli sono dietro l’angolo. Solo una settimana fa ci sono stati attentati multipli che hanno fatto decine di morti in tutto il Paese e quindi i problemi ci sono ancora, con i colpi di coda di Al Qaeda sempre in agguato. Per non parlare dell’influenza dell’Iran sul piano economico, politico e su quello della violenza. E quindi bisogna ancora andare con i piedi di piombo. Non so se gli americani se ne rendano conto. Però penso che gli irakeni prima o poi riusciranno a tenere sotto controllo la sicurezza del Paese, e sarebbe anche ora che si diano un governo. Sono sei mesi che stando trattando per farlo.
Il risveglio delle cellule terroristiche dormienti nella striscia di Gaza può essere collegato al ritiro Usa dall’Iraq?
No, non farei un collegamento così diretto. In realtà queste cellule, che poi sono combattute da Hamas, ci sono da diverso tempo. Magari in questo momento si riescono a organizzare meglio. Ma ciò a cui rispondono è solo al disegno del movimento jihadista che riguarda la striscia di Gaza.
Il vicario cattolico di Baghdad, Shlemon Warduni, commentando il discorso di Obama ha dichiarato che «la gente ora ha più paura, l’Iraq non è sicuro, ci sono morti in continuazione, bombe e kamikaze». Condivide queste affermazioni?
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Sicuramente i cristiani hanno più paura di prima, si sentono abbandonati, e anche la minoranza sunnita, anche se in forme diverse, vive le stesse difficoltà. Già quando c’erano gli americani, i cristiani subivano ogni forma di nefandezza. Ora si sentono completamente lasciati al loro destino, perché non si fidano evidentemente delle strutture di sicurezza della polizia locale irakena. Al punto che nel nord dell’Iraq i cristiani stanno iniziando a girare armati per autodifesa, e questo è segno del fatto che non si fidano più di nessuno. Il ritiro americano è un grosso pericolo per le minoranze, sia per i cristiani sia per i sunniti. Ci vorrà ancora una strada abbastanza lunga per raggiungere la completa sicurezza nel Paese, ma la strada è stata imboccata e non credo che gli irakeni vogliano tornare indietro. Ricordiamoci comunque che in Iraq per almeno un anno resteranno 50mila soldati americani, e la loro non sarà una presenza simbolica. Avranno infatti il compito di addestrare le forze di sicurezza irakene.
Ritiene che Obama stia togliendo parte delle truppe dall’Iraq per mandarle in Afghanistan?
In Afghanistan le ha già mandate, a fine anno ci saranno, contando tutte le truppe straniere, ben 140mila militari, che sono di più di quelli che aveva inviato a suo tempo l’Unione sovietica. Speriamo che serva a qualcosa. I generali Usa avevano fatto presente a Obama che non potevano tenere aperti due fronti così importanti contemporaneamente. Per cui è chiaro che il ritiro delle truppe dall’Iraq aiuta l’Afghanistan.
E’ d’accordo con quanto sostenuto dai generali Usa?
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Sì, mi rendo conto che combattere su due fronti è un problema anche per una potenza mondiale come gli Stati Uniti. Tutto si fa in emergenza, ma per fortuna non siamo nella seconda guerra mondiale. Il problema è che questo era evidente fin dall’inizio. Faccio solo un esempio: quando si è deciso di intraprendere l’invasione dell’Iraq, si è smesso di incrementare le truppe Usa in Afghanistan. E così è iniziato il declino e la crisi della situazione nel Paese dove Al Qaeda è ancora potente. Quando si è aperto il secondo fronte, il primo (che era il principale) ne ha sofferto moltissimo, a tal punto che le conseguenze si risentono ancora oggi.
Ritiene quindi che la chiusura della missione in Iraq possa coincidere con un miglioramento della situazione in Afghanistan?
Il problema è che la situazione in Afghanistan è incancrenita da un paio d’anni e continua a incancrenirsi. Certamente quest’anno e il prossimo saranno anni di svolta, l’impegno Usa è stato maggiore e c’è la possibilità di non perdere la guerra. Però è chiaro che quando Obama ha affermato che si ritirerà nel luglio dell’anno prossimo, ha compiuto il più grande errore che possa avere mai fatto un presidente americano. Nel senso che i talebani non aspettano altro che di avere una data sul ritiro, perché avere quella data nella loro testa equivale a dire «abbiamo vinto». Noi abbiamo l’orologio, gli afghani ragionano in termini di secoli. Il problema quindi è che ci si deve impegnare, come ha fatto fino ad ora Obama anche se obtorto collo, e bisogna farlo fino in fondo. Cioè fino a che la missione sarà compiuta, ma fino a quando la guerra sarà vinta definitivamente.
Quanto compiuto finora in Iraq può costituire un modello per quello che si dovrà fare in Afghanistan?
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Sono due Paesi completamente diversi, come struttura tribale e nazionale. Certo si può copiare qualcosa, per esempio l’idea di Petraeus di utilizzare contro Al Qaeda i sunniti, che prima combattevano contro gli Usa. Adattandolo in Afghanistan alle tribù pashtun, che sono stanche delle vessazioni di Al Qaeda. Anche se in Iraq non c’era una presenza di Al Qaeda come in Afghanistan, dove è quasi predominante. In Afghanistan bisogna riuscire a parlare al cuore e soprattutto alla pancia della popolazione, portandola dalla propria parte.
Come valuta il ruolo giocato da Obama nella guerra in Iraq?
Obama è sempre stato contrario alla missione in Iraq, coerentemente ha sempre detto che voleva portare i soldati a casa. Ma nello stesso tempo ha ringraziato Bush: «Eravamo su posizioni diverse, ma siamo entrambi patrioti». Bush ha voluto invadere l’Iraq, abbattere Saddam Hussein, e quindi poi ha sopportato tutto quello che è successo dopo fino all’arrivo di Obama. Corretto e inevitabile riconoscere che se la missione è stata compiuta è merito suo.
La guerra in Iraq è stata di fatto conclusa da Petraeus sotto l’amministrazione Bush. Obama non ha neanche avuto la possibilità di fare molto, perché tutto era già stato tracciato. Gli irakeni riusciranno piano piano a garantire la propria sicurezza e a governare se stessi. Il ritiro americano non è una fuga, giunge in un momento in cui le cose stanno volgendo al meglio, gli attentati rispetto al 2007 si sono ridotti di dieci volte e, anche se ci sono motivazioni legate alla politica interna, comunque la situazione permette una riduzione delle truppe.
(Pietro Vernizzi)