La resistenza di uomini della polizia e dei servizi segreti legati all’ex-presidente Ben Alì – che, asserragliati nel palazzo presidenziale di Cartagine, hanno risposto ieri con il fuoco a reparti dell’esercito in procinto di farvi irruzione – inducono a temere che la transizione dal regime semi-dittatoriale del presidente Ben Alì a qualcos’altro, ancora difficile da prevedere, non sarà così fluida e indolore come era stata quella con cui lo stesso Ben Alì aveva posto termine nel 1987 a trent’anni di governo del suo predecessore Habib Bourghiba. Nondimeno ci sono vari motivi per sperare che la transizione ciononostante potrà non essere catastrofica: tra questi innanzitutto il fatto che l’esercito non si sia schierato in difesa di Ben Alì ma anzi, rifiutandosi nei giorni scorsi di sparare sulle folle di manifestanti, abbia dato un contributo determinante alla sua caduta. È ovvio che la fine di un regime autoritario pluridecennale lascia sempre dietro di sé il difficile problema della smobilitazione della sua polizia, delle sue agenzie di spionaggio interno, insomma dei suoi “fedelissimi”. C’è da augurarsi che in Tunisia il problema venga risolto con rigore ma anche con realismo; e non nel modo maldestro con cui si pretese di risolverlo nell’Iraq del dopo Saddam Hussein con le note disastrose conseguenze.



Dal 1956, anno in cui divenne indipendente dalla Francia, la Tunisia è stata governata da due uomini soltanto, appunto Bourghiba e Ben Alì: un primato di stabilità che ha delle evidenti ombre ma anche delle luci che sarebbe poco saggio sottovalutare. Tra queste ultime va innanzitutto ricordato che, grazie a una politica fatta non solo di repressione ma più ancora di scelte positive, la Tunisia di Boughiba e di Ben Alì è rimasta sin qui immune dal fondamentalismo islamista. E senza per questo dover passare attraverso fasi di repressione violenta di massa né tanto meno di guerra civile sanguinaria come quella che travagliò per anni la vicina Algeria.
 



Prima quindi di compiacerci per la fine di una semi-dittatura, in una parte del mondo dove la democrazia non è purtroppo la norma bensì l’eccezione, assicuriamoci che il futuro politico prossimo di un Paese tra l’altro a noi così vicino sia migliore e non peggiore del suo passato prossimo. Geograficamente, come si sa, la Tunisia ci è vicinissima, essendo tra l’altro luogo di transito dei gasdotti e degli oleodotti che collegano l’Italia all’Algeria, uno nostri principali fornitori di idrocarburi, ed essendo anche sede di numerosi stabilimenti e imprese di  proprietà italiana. Dal punto di vista della ricchezza invece siamo lontanissimi: ai nostri quasi 32 mila dollari annui di reddito medio pro capite corrispondono in Tunisia meno di 3500 dollari. Anche prima, anche dopo e al di là della crisi in atto in questi giorni, un così grande squilibrio dovrebbe preoccuparci e indurci a una politica di ben più attivo sostegno allo sviluppo di questo Paese come anche della vicina Algeria. Nell’epoca della globalizzazione in cui ormai viviamo, una così grande prossimità geografica combinata con un così forte divario di livello economico è obiettivamente una bomba innescata che sarebbe meglio disinnescare pacificamente per tempo.
 
Ben Alì faceva una politica apertamente filo-occidentale, peraltro largamente condivisa soprattutto nelle città e nelle regioni più sviluppate, e in modo specifico da un nascente ceto imprenditoriale che è una delle  grandi risorse del paese. Il fatto però che la crisi sia stata provocata da violente manifestazioni di protesta contro l’aumento del prezzo di beni come il pane, la farina e l’olio la dice lunga sul tenore di vita delle masse popolari tunisine. C’è ovviamente da augurarsi e da adoperarsi perché la transizione da Ben Alì  al dopo Ben Alì non sia catastrofica. Se ciò sarà, come si deve sperare, sarebbe tuttavia un errore accontentarsi solo di questo. In Tunisia (come anche in Algeria) il nostro Paese dovrebbe investire molto di più per aiutare il Maghreb a divenire, con comune vantaggio, un’area non solo di decentramento industriale per aziende che stanno sui mercati dell’Unione europea bensì anche e sempre più di produzione manifatturiera a basso costo di beni di qualità proponibile a mercati dell’emisfero Sud e in primo luogo dell’Africa sud-sahariana.
 

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