“Betlemme si trova a 8 km di distanza da Gerusalemme, ma per chi abita nella città santa è molto più vicina Roma”. Questo perché “dal 2005 gli israeliani non possono più varcare la soglia dei territori palestinesi”. Lo stesso vale per i palestinesi che vogliono visitare Israele, ovviamente. I soldati israeliani, posizionati con i loro mitra ai checkpoint, ne vietano l’ingresso per gli uni e l’uscita agli altri. “Adesso lo capite il dramma di questo paese?”, ci chiede sorseggiando un caffè Eran Tzidkiahu, ricercatore alla Hebrew University di Gerusalemme che nel tempo libero fa la guida turistica. Una guida turistica molto particolare, a dir la verità: un ex soldato dai tratti tipicamente semiti e l’aria di uno che vuole cambiare le cose, che cerca di ridurre la distanza tra due città che stanno l’una a meno di 10 km di distanza dall’altra. Come? “Portando gli israeliani a visitare la Palestina, nella speranza che un giorno possa accadere anche il contrario”. Per questo abbiamo deciso di incontrarlo. Giusto il tempo di un caffè in città vecchia, per sentirci raccontare la sua storia.
Parliamo di questi tour, Eran. Da dove ti è venuta quest’idea?
Sono nati dall’incontro tra alcuni palestinesi e alcuni israeliani in Bet-Jala, una città della zona C (sotto il controllo e l’amministrazione israeliana) nella West Bank in cui è permesso incontrarsi. Un mio amico palestinese, Ahmad Alhelu, disse che voleva portare i cittadini israeliani nei territori palestinesi e i palestinesi nelle città israeliane. Vicino a lui c’era un’altra ragazza israeliana di nome Noa Maiman, che ha detto: “Sai una cosa? Ci sto! Cominciamo a farlo. Però dobbiamo fare in modo che sia legale”. Hanno chiesto il permesso all’esercito, al sistema israeliano e a quello palestinese per seguire le procedure corrette. Le prime volte usavano delle macchine private, io mi sono unito a loro subito dopo e ho deciso di buttarmi nel progetto. Il fatto di essere israeliano mi garantisce una grande conoscenza del territorio, della politica e di quello che sta succedendo oggi. Abbiamo cominciato a creare un tour diurno di Israeliani nei territori palestinesi, specialmente a Gerico e a Betlemme; ogni volta c’erano piu’ persone e abbiamo dovuto sostituire le macchine con i pullmann.
Cerchiamo di creare le condizioni perché ci sia almeno il 20% di palestinesi e il resto di israeliani. Spero che un giorno possano venire anche dei palestinesi a visitare Israele. Sarebbe un grande aiuto per loro…
Chi decide di partecipare a queste gite?
Molte persone, quasi tutte quelle che si uniscono, conoscono già i posti. Prima dell’Intifada si poteva viaggiare liberamente, immaginate la sorpresa di queste persone a vedere questi posti… di nuovo. Sono soprese soprattutto di trovare un’autorità palestinese funzionante.
Ci sono anche giovani sui 30 anni, per loro invece è la prima volta, la prima volta che vengono da civili e non come soldati. Purtroppo la maggior parte dei partecipanti è schierata a sinistra, e questo ci danneggia. Noi vorremo che venissero tutti, vorremmo che tutti i partiti osservassero qual è la realtà di oggi. Non sappiamo se cambiano le loro vite o il loro modo di pensare, ma molti dei partecipanti vogliono aggiungersi come volontari a questo progetto.
Sono nate alcune amicizie o anche storie d’amore tra israeliani e palestinesi?
Sfortunatamente nessuna love-story ancora… è una situazione molto difficile da immaginare, ma certo sono nate alcune amicizie. Di solito, prima di metterci in viaggio facciamo un incontro, ci sediamo, beviamo un caffè e tutti parlano un po’ di sé. Se un palestinese è un musicista e lo è anche un israeliano vogliamo che loro due lo sappiano. Così durante il giorno possono discutere e parlarne. Sicuramente la passione comune dà un imput in piu’ per conoscersi. Anche se qualcuno lavora nel commercio o magari è un ingegnere, chiunque può trovare nell’altro alcuni punti in comune anche per lavorare insieme. Le persone stanno creando dei network sociali e alla fine di ogni viaggio le persone si scambiano gli indirizzi mail, i nomi su facebook, per continuare a sentirsi.
E i tuoi amici, invece, cosa pensano rispetto a quello che stai facendo?
Molti mi supportano, alcuni sono indifferenti mentre altri si oppongono o credono semplicemente che sia una cosa sbagliata. Mi hanno riferito che altre persone, magari i familiari dei volontari che lavorano con noi, a casa hanno avuto reazioni molto dure, sono preoccupati. Hanno paura perché andiamo dall’altra parte del Muro. Ma noi non facciamo politica. Ne parliamo qualche volta, è naturale, ma puntiamo molto di più sul livello umano. E così vogliamo che rimanga.
Hai ricevuto qualche insulto?
Personalmente no, anzi, chi conosce questa attività solitamente mi supporta. Fino al punto che adesso vogliamo costruire una ONG, con due direttori: un israeliano e uno palestinese; e poi una struttura, con l’aiuto dei nostri sostenitori. E’ ancora prematuro forse, ma ci stiamo muovendo.
Bisognerebbe capire prima cosa ne pensa Israele delle tue attività…
Il contatto con l’esercito è molto positivo. Ci sta aiutando. Senza di loro non potremmo farlo perché deve essere una cosa legale. Siamo in contatto con il commando centrale che ci dà i permessi per poter andare, ci dà la possibilità di non infrangere la legge. Recentemente abbiamo avuto anche il supporto della polizia di Gerusalemme. Non so cosa pensino, fatto sta che ci stanno aiutando. A volte quando arriviamo al checkpoint abbiamo dei problemi con i soldati, perché per loro è inconcepibile avere di fronte alcuni loro connazionali che cercano di entrare in Palestina.
E cosa dicono?
Molti sono sorpresi, ci controllano per molto tempo perché vogliono essere sicuri che abbiamo i permessi, chiamano l’ufficio del generale e può capitare che passiamo 2 o anche 3 ore al checkpoint.
Ma sono contenti di quello che sta accadendo?
Alcuni sono indifferenti, altri mostrano entusiasmo, mentre una minoranza è aggressiva, cerca di ostacolarci, ma ovviamente essendo legale non possono farci niente.
Allora non passi proprio tranquillamente…
I problemi maggiori sono al checkpoint, per tutte le ore che rimaniamo lì ad aspettare, ma adesso il sistema sta migliorando. In Palestina abbiamo molto successo invece, tantissimi ci incoraggiano. Abbiamo molta più richiesta di quanto possiamo offrire. Non pretendiamo di sovvertire il sistema e risolevere i problemi del Paese. La soluzione del conflitto è politica ma il problema principale è che le persone non si incontrano mai. Nessuno sa della situazione dell’altro. Noi abbiamo cominciato a creare un movimento popolare in cui le persone stanno cominciando a conoscersi. Si conoscono e vedono che anche dall’altra parte del muro ci sono brave persone. Che poi è la cosa più normale del mondo.
C’è qualche storia in particolare che ti ha colpito?
C’è un gruppo di Israeliani molto particolare, tutta gente che durante la guerra ha perso gambe o braccia. Spesso vengono con la loro carrozzina a visitare Betlemme o Gerico. Non finiranno mai di stupirmi due persone in particolare, due palestinesi, che sono stati prima gambizzati e poi arrestati dagli israeliani nel 1996. Uno guidava l’ambulanza e l’altro era ufficiale di polizia. Un giorno si sono ritrovate assieme sul pullman, sono diventati amici e ora lavorano assieme per la pace.
Se ci pensate, anche io che ero un soldato, ho preso parte al conflitto e anche oggi amo lo stato d’Israele, ma le cose devono cambiare.
Spegniamo il registratore. Eran è di fretta, sta per andare a Tel Aviv a una manifestazione per la pace. Ma prima di mettersi il casco e salire sulla sua Vespa si volta verso di noi e ci dice: “A volte mi chiedono se ho paura ad andare dall’altra parte del muro, io gli rispondo che mi farebbe più paura il non andarci, perché se le persone non si conoscono, non si incontrano, questo paese non conoscerà mai la pace”.
(Andrea Avveduto e Francesco Moramarco)