Il Caporalmaggiore Luca Sanna stava presidiando, assieme ad altri soldati italiani, l’avamposto di Hilander, situato nella cintura di sicurezza attorno alla base militare di Bala Murghab, 200 km a nord di Herat. Un uomo con la divisa dell’esercito Afghano gli si è avvicinato sorridendo, ha finto che il fucile gli si fosse inceppato e – una volta a tiro – lo ha vigliaccamente freddato; poi, prima di fuggire, facendo perdere le proprie tracce, ha ferito alla spalla un altro militare italiano. “Fuoco amico”, si era pensato inizialmente. Poi, la smentita. Si è trattato di un terrorista, probabilmente, mascherato da militare alleato. E così, con la vittima di ieri – una giovane di 33 anni di Oristano -, sale a 36 il numero dei nostri soldati morti nel Paese dal 2004. A questo punto, ha ancora senso rimanervi? E in cosa consiste, allo stato delle cose, la nostra missione? Lo abbiamo chiesto a Marco Lombardi.
Ancora una perdita per l’Italia. Si poteva evitare?
In queste zone di periferia siamo costantemente sotto attacco. E i terroristi hanno cambiato strategia, rispolverandone una delle tante a loro conosciute. Eravamo abituati agli Ied, gli ordigni esplosivi improvvisati, e sapevamo che spesso era inevitabile imbattersi in essi. Al contempo non era evitabile né prevedibile l’attacco da parte di una persona che si pensava amica.
Nel quadro dello schieramento della forza multinazionale, qual è l’importanza strategica della zona affidata all’Italia?
Enorme. A noi è affidata la gestione della provincia di Herat. Paragonabile, in Italia, alla Lombardia. Storicamente, la provincia – una delle più antiche in Afghaistan – è persiana; ha dietro di sé una cultura millenaria, è luogo di traffici e relazioni con l’Iran e con gli stati del Nord, ed è una zona ricca non solo per il commercio ma anche per le opportunità naturali.
Oggi il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha detto che «per la prima volta dopo tanti anni non stiamo solo dentro le basi fortificate, ma miriamo a controllare il territorio per fare in modo che la popolazione afghana rientri nei suoi villaggi». Cosa significa? E’ cambiata la nostra strategia?
L’esigenza, in vista di un’uscita dall’Afghanistan, prevista per il 2014, è quella di portare la normalità nelle aree di periferia. Il fatto è che non esiste un afghano che lavori per i talebani in virtù della propria fede religiosa o per qualche forma ideologica. Lavora per loro perché gli conviene. E – laddove i militari alleati non sono presenti – ritorsioni e minacce da parte dei talebani perché i contadini stiano dalla loro parte sono all’ordine del giorno. Questa operazione costituisce un sistema di rapporto funzionale, e rende conveniente ai contadini lavorare per gli estremisti. I nostri cercano, quindi, di punteggiare le aree di periferia con delle piccole basi, per poter garantire più sicurezza a questa gente. “Dovete avere meno paura – gli stanno dicendo -. Siamo qui ad aiutarvi”. Questo sta avendo un certo successo ed è la ragione per cui ci sparano addosso.
In sostanza, i talebani ci vedono come dei “concorrenti”?
Assolutamente sì. La ragione del mio prossimo viaggio nel Paese, consisterà nel capire come rendere gli afghani più interessati al benessere, come inoculare in loro il “virus” del benessere. Se riusciamo a “contagiarli”, questo si diffonderà, rendendo possibile cambiare lo stato delle cose.
Cosa intende?
Quanto costruiamo le scuole, forniamo loro anche i maestri, assieme agli ospedali i dottori, gli infermieri o le ambulanze. Fondamentalmente gli facciamo vedere che è possibile vivere senza paura. In sostanza, i militari forniscono la sicurezza. Chi come me lavora nel campo educativo ed è impegnato nel Paese, ad esempio, lavora con i militari per dare, insieme alla sicurezza il “software” rispetto alla opere che i soldati costruiscono. Queste elementi, a Herat e Kabul, ormai, ci sono. Sono città sicure. La vita ha ripreso a scorrere, anche se episodi terroristici sono sempre possibili. Dobbiamo riuscire a realizzare quanto fatto nelle grandi città anche nei piccoli villaggi.
Il nostro contingente è adeguatamente attrezzato?
Lo è sia militarmente che dal punto di vista delle competenze. Sotto lo stretto profilo della security i nostri militari sono dei grandi professionisti. Hanno tutti, mediamente, 30-35 anni, alcuni 40 compiuti. Non incontrerà mai il 18enne americano. A questo si associa una preparazione straordinaria delle nostre truppe speciali.
Alla luce della morte del soldato italiano, qual è il senso della nostra presenza in Afghanistan?
La perdita di una vita umana è sempre drammatica. La coscienza che possa accadere, in un contesto del genere, è ben presente nei militari che operano là. E mi sembra che ci sia in gran parte del nostro Parlamento. Quello che mi ha colpito è che i nostri vogliono e credono di lavorare per l’Afghanistan. Sono uomini che nella consapevolezza di dover difendere e nella capacità di farlo sono i primi a costruire un’opportunità di dialogo non violento. Concretamente, in 5 anni, abbiamo costruito quasi 100 scuole, ognuna con circa 1.000 bambini.
In Afghanistan l’Italia ha una lunga tradizione di rappresentanza diplomatica. Come incide questo nel rapporto con la popolazione e con i Paesi alleati?
E’ “antica” la nostra presenza diplomatica ma anche quella della Chiesa cattolica. I padri barnabiti sono lì da 80 anni e non si sono mai spostati. C’è, quindi, da parte nostra, una conoscenza profonda del Paese. Sarebbe opportuno che questo venisse riconosciuto e affermato con più forza anche dagli Alleati. Siamo lì da tantissimo tempo, ed è bene non perdere posizioni nei confronti degli altri Paesi che sono arrivati solo adesso.
(Paolo Nessi)