Effetto domino: con questa… formula magica, che ha il vantaggio di essere di facile comprensione ma lo svantaggio di non spiegare nulla, la stampa e le tv cercano di rendere ragione dei moti popolari che, scoppiati in Tunisia, hanno portato alla caduta del presidente Ben Alì; e che, scoppiati in Egitto, stanno mettendo a repentaglio il regime del Presidente Mubarak. Si aggiunge poi il caso della tensione in Libano, anche se qui le cause della crisi sono più remote e più complesse. E meriterebbe pure di venire verificato, pur se qui non abbiamo spazio per farlo, in quale misura la vicenda dei moti di Tirana contro il presidente Berisha non sia l’eco di quanto sta accadendo nel mondo arabo in un popolo che, pur essendo europeo, è in larga maggioranza di tradizione musulmana.



Quando in un’intera regione del mondo scoppiano quasi contemporaneamente dei moti per cause immediate diverse ciò significa che il vero detonatore della crisi è una causa più ampia e profonda anche se magari meno evidente. Fu così in Europa nel 1848, quel “quarantotto” che in varie lingue, tra cui la nostra, è divenuto sinonimo di caos, di improvviso sconvolgimento generale. In quella circostanza si trattò dell’inizio dell’esaurimento degli equilibri fissati al Congresso di Vienna. Qual è allora la causa profonda di questo propagarsi di moti e di tensioni sulla riva sud del Mediterraneo?  A mio avviso essa va ricercata nel declino dell’influenza americana che, pur restando molto rilevante, lo è meno di prima.



Nella misura in cui nella regione ci si sta accorgendo che la crisi della presenza degli Usa nel Mediterraneo e nel Levante non dipendeva da Bush, ma da fattori storici ed economici che impongono a Obama una politica ben poco diversa da quella del suo predecessore, ecco che molte cose cominciano a muoversi; molte pazienze si esauriscono; molte speranze impallidiscono.

A tutto questo si aggiunge il perdurare della crisi economica internazionale che ovviamente colpisce anche le economie della riva sud del Mediterraneo, e ben più duramente che in paesi ad alto reddito come il nostro.

I primi bersagli non possono però che essere i regimi al potere, e al potere da molto, troppo tempo. Sia chiaro: per quante giustificate critiche si possano fare a tali regimi non è affatto garantito che la loro repentina caduta apra a un roseo futuro. Non è il caso dell’Italia o della Germania del 1945. Non sono paesi dove un’esperienza democratica, a suo tempo brutalmente troncata da una dittatura, è pronta a risorgere dalle sue ceneri. Qui il rischio di cadere dalla padella di una dittatura comunque abbastanza laica alla brace dell’islamismo non è remoto. Teniamone conto.



Stando così le cose che fare? La prima risposta possibile ci concerne da vicino poiché riguarda il nostro Paese. L’Italia è il più mediterraneo dei membri del G8. Deve certo fare non da sola ma insieme all’intera Unione europea e al grande alleato d’Oltreatlantico. Occorre però che si attrezzi per essere in grado di assumere,ogni volta che sia opportuno, quel ruolo di antesignano nel processo di sviluppo condiviso della regione mediterranea che per vari motivi nessun altro può svolgere, o perché troppo forte o perché troppo debole.
 

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