Sono state 33 le persone rimaste a terra nella sola giornata di ieri, nel corso della rivolta che sta infiammando le strade dell’Egitto. Anche stanotte il coprifuoco è stato violato in massa. La polizia ha sparato sui manifestanti, mentre l’esercito – il cui intervento era stato a lungo invocato dalla folla – ha preso il controllo di alcune aree. Nel nord del Paese migliaia di detenuti sono evasi da un carcere. tra di loro molti integralisti islamici. È stato formato intanto il nuovo governo: alla vicepresidenza va il capo dei servizi segreti, uomo forte di Mubarak  e possibile successore. E dagli Usa Obama invita il rais ad attuare riforme che fermino la rivolta.



Ieri si è assistito a scene di solidarietà tra ribelli e militari, che hanno preso il thè insieme sui carri armati. L’esercito è percepito dagli egiziani come una forza “popolare”, contrapposta alla polizia controllata dal regime. I militari hanno riportato la calma in diverse zone del Cairo; sono intervenuti anche a fermare il saccheggio del Museo egizio, avviato ieri pomeriggio da alcuni vandali. Nel saccheggio sono state distrutte due mummie. La tensione rimane alta nel nord del paese, dove migliaia di detenuti hanno preso il controllo di un carcere, riuscendo poi ad evadere e ad impadronirsi delle armi del personale.



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Mubarak intanto ha formato il nuovo governo: il nuovo premier è Ahmed Shafik, ex ministro dell’aviazione civile, mentre suo vice è stato nominato Omar Suleiman, capo dei servizi segreti. Entrambe le personalità sono vicinissime a Mubarak ma anche ai vertici dell’esercito. La scelta comunque non ha accontentato la folla, che prosegue nella protesta.

 

Un invito a Mubarak a scegliere la strada delle riforme è arrivato dal presidente Usa Barack Obama. Dalla Casa Bianca quindi non arriva nessuna richiesta di dimissioni del rais: la principale preoccupazione americana, in questo momento, è di evitare il vuoto di potere nel Paese. L’Egitto è un tassello fondamentale dello scacchiere mediorientale; il caos al Cairo metterebbe a rischio tutta la stabilità della regione, con forti ripercussioni sulla situazione in Israele e Palestina.