Caro Direttore,
leggendo l’articolo di Luigi Santambrogio su Gaza ho riscontrato alcune inesattezze, non tanto sui fatti da lui ben raccontati, ma sui termini che vengono usati per affrontare i problemi in questo delicato lembo di terra del Vicino Oriente.
Io vivo attualmente a Gerusalemme, dove lavoro come giornalista per il centro televisivo della Custodia di Terra Santa, e ho avuto modo, nel mio piccolo, di osservare alcune situazioni che agli occhi di molti occidentali – così impegnati a ragionare – passano spesso inosservati.
Non voglio dar vita a polemiche sterili che lasciano il tempo come lo trovano, né mettermi dalla parte di chi Santambrogio taccia di pacifismo da guerra, garantismo da stadio o giustizialismo a corrente (politica) alternata. Lungi da me anche difendere I terroristi di Hamas o l’ultimo dei burocrati che sostiene questa organizzazione. E aggiungerò: mandiamo pure a lavorare la baronessa Ashton.
Ma in punta di piedi, senza presunzione e quasi bisbigliando alle orecchie della stanca Europa, vorrei raccontare non tanto il mio pensiero o le mie idee (che interesserebbero a pochi), ma fatti precisi e documentati.
“Da Gaza non si scappa neanche sulle ali della fantasia”. È una bella metafora, che ha trovato senz’altro compiacimento nel lettore colto e approvazione in chi crede nel mito di Israele “modello di democrazia”, ma che non corrisponde del tutto alla realtà. Uscire da Gaza è difficile, certo, ci mancherebbe. Ma non sempre per causa di Hamas. Il buon Sartre aveva ragione a dire che “quando si fanno la guerra i ricchi sono i poveri che muoiono”. Può essere retorica, se vogliamo. Ma i poveri che ora soffrono e muoiono a Gaza non sono il frutto solo di una dittatura spietata, bensì il risultato di un conflitto ingiusto e drammatico che non vede in campo il bene e il male, ma due popoli determinati e ognuno con delle ragioni, per quanto discutibili che siano. In uno scontro che ha provocato tanta, ma tanta miseria.
Non dimentichiamoci poi che è lo stato d’Israele a concedere i visti, per esempio, ai cristiani che hanno voluto andare alla messa di mezzanotte a Betlemme. Visti che per molti non sono arrivati. Anche se alcuni dati positivi – a onor del vero – vanno registrati: quest’anno, per esempio, per Natale sono stati concessi ben 600 permessi ai cristiani di Gaza per andare a Betlemme. E sono permessi per un periodo lungo, dal 23 dicembre al 10 gennaio. È un fatto singolare, mai accaduto prima, ma non dimentichiamoci il milione e mezzo che ancora non vedono l’uscita alla fine del tunnel. Aggiungo, sempre per dovere di cronaca, che spesso a Gaza è più difficile entrarci…
Santambrogio elenca con lodevole perizia di dettagli le brutalità di Hamas che condanno anch’io senza possibilità di appello, ma è importante, proprio per non cadere nell’errore che fanno già gli intellettuali dall’alto delle loro cattedre, rendere a ognuno il suo. È giustificabile l’atteggiamento di uno Stato (Israele) che proprio qualche settimana fa ha lanciato dei missili rischiando di distruggere un convento di suore? Possiamo noi – e rivolgo questa domanda a me come a tutti i lettori – deprecare il male giustificando altro male? Attacchiamo sì i pacifisti benpensanti, non mettiamoci però dalla parte dei guerrafondai a priori. Forse siamo noi che – a volte – accecati da una querelle infinita fatta di prese di posizioni ideologiche, facciamo il gioco proprio dei cosiddetti benpensanti. Mettiamoci piuttosto al servizio dei fatti, fuori da ideologie e lontani da partiti o fazioni.
Concludo queste brevi righe con una nota positiva. Qualche settimana fa è stato celebrato il Natale anche a Gaza, con il patriarca di Gerusalemme. Una cristiana del luogo, che si chiama Habdalla, si dice comunque felice, anzi, molto felice. Anche se c’è la guerra. In effetti non si legge sconforto o disperazione nei volti di questi cristiani… È provata, ma vivace e coraggiosa la comunità cattolica di Gaza City che ha celebrato, due settimane fa, un altro Natale. Anche la suora che ha rischiato di morire per i missili israeliani ha il sorriso sulle labbra. Sono contenti di essere lì e non nel college svizzero con cui si è voluto – a mio avviso impropriamente – fare un paragone.
Proprio così. In quella “gabbia a cielo aperto”, nella “prigione più grande del Medio oriente”, dentro quel covo di terroristi e assassini (ma non tutti, anzi…) è stato celebrato un Natale di speranza. Nonostante tutto.
Andrea Avveduto