La strage di 25 copti durante la manifestazione che domenica scorsa la comunità cristiana aveva indetto al Cairo per protestare contro la distruzione di una chiesa ad Assuan, ha rappresentato il momento di più alta tensione in Egitto dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011.

La dinamica degli eventi sembra avvolta nell’oscurità ed è forse destinata a rimanere tale: nei momenti di transizione, d’altra parte, attribuire responsabilità può apparire estremamente rischioso. La tv di Stato ha accusato i copti di essere giunti alla manifestazione dotati di armi e di aver inaugurato la violenza. Per parte sua la comunità cristiana afferma di essere stata attaccata già durante la marcia che conduceva al luogo prescelto per la manifestazione, il quartiere Maspero, sulle sponde del Nilo, a due passi da piazza Tahrir. Sulla degenerazione degli eventi c’è poi l’ombra dei salafiti, estremisti dell’Islam sunnita, che hanno probabilmente raggiunto il corteo per attaccare i copti, storicamente bersaglio delle loro manifestazioni di violenza e da molti ritenuti responsabili anche della bomba che la notte di Capodanno scorso è esplosa in una chiesa di Alessandria d’Egitto durante la messa di mezzanotte.



Se all’origine dell’inaudita violenza che le forze armate hanno usato contro i manifestanti (5 persone sono morte schiacciate dalle ruote di un tank) ci sia miscalculation, mancanza di direttive ai soldati o, peggio, spaccature tra i vertici militari, è cosa difficile da appurare. Quello che, tuttavia, è certo è che le autorità militari detentrici del potere ad interim in attesa delle prossime elezioni, hanno perso il controllo di una situazione che potrebbe rapidamente rivolgersi contro di loro.



Dopo la caduta di Mubarak, infatti, l’esercito, che non aveva sparato neppure un colpo durante i giorni della rivoluzione (a differenza della polizia), facendosi così garante della transizione politica, ha lavorato negli ultimi mesi per assicurarsi un posto d’onore nella transizione stessa. La corruzione e la reiterazione di pratiche autoritarie del potere, che a molti hanno ricordato né più né meno che i tempi bui dell’ancien régime, hanno però finito per compromettere l’immagine di protettori della nazione con cui i militari erano stati acclamati 9 mesi fa.

Dietro la magnanimità iniziale del Consiglio Supremo delle Forze Armate si celava, in realtà, la volontà specifica dei vertici della Sicurezza di preservare un ruolo di controllo della burocrazia di Stato, tramite cui preservare il monopolio dei più importanti settori strategici dell’economia. Questa è, in realtà, caratteristica storicamente tipica delle classi militari, non solo in Egitto ma in tutti i regimi del mondo arabo: un mezzo attraverso cui il potere politico si è sempre assicurato una stabile lealtà da parte delle forze armate, scongiurando il pericolo di un colpo di Stato.  



L’affermarsi di attori politici alternativi, primi fra tutti i Fratelli Musulmani, e la progressiva frammentazione del sistema politico hanno però presto edulcorato la prospettiva del Consiglio Supremo di arrivare alle urne con una incontrastata macchina del potere. Al contrario, proprio la mancanza di trasparenza e la tenuta in vigore della legge d’emergenza, simbolo di notti nere del potere che nessuno vorrebbe più rivivere, hanno sfaldato negli ultimi mesi il consenso popolare verso i vertici ad interim.  

La violenza con cui l’esercito ha represso la manifestazione dei copti, ha, infine, inflitto un duro colpo alla credibilità delle autorità militari e potrebbe rivelarsi un boomerang contro il governo in carica. A nulla è servito scaricare le responsabilità, mentre da più parti negli ultimi due giorni le richieste di dimissioni sono piombate a raffica sui giornali indipendenti e sui blog. Martedì, infine, il Consiglio supremo ha messo in mostra tutta la sua nevrotica indecisione: il ministro delle Finanze e vice premier Hazem el-Bewlawi e successivamente il primo ministro Essam Sharaf hanno rimesso la loro domanda di dimissioni nelle mani del Consiglio Supremo delle Forze Armate.

Una catena di reazioni e smentite ha però poi reso incerta la caduta del governo. Sempre nel pomeriggio di martedì erano circolate addirittura voci della possibile nomina di Mohammed El-Baradei, ex numero uno dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), come nuovo capo del governo. Ma in serata, dopo un meeting straordinario delle autorità, il consiglio militare, presieduto da Mohammed Hoseyn Tantawi, ha dissolto ogni dubbio, annunciando il ritiro delle dimissioni da parte di el-Bewlawi mentre la mancata conferma delle dimissioni di Sharaf fa intendere che il governo per il momento resta in carica.

La crisi politica è evidentemente irrefrenabile e riaprirà profondamente i giochi elettorali (le prime elezioni per la camera bassa sono previste già per fine novembre). Il suo aspetto più pericoloso, tuttavia, sta nel fatto che essa potrebbe inaugurare una nuova fase d’odio interconfessionale tra cristiani e musulmani. La grande scommessa su cui i militari hanno, per giunta, puntato negli ultimi mesi per consolidare la loro legittimità politica è stata la capacità esclusiva di ripristinare e garantire la sicurezza nel paese, notevolmente ridottasi dopo la dimissione di Hosni Mubarak.

Ma la risposta sanguinosa che proprio l’esercito ha dato domenica scorsa nel corso della manifestazione copta, rompendo peraltro, per la prima volta dal 25 gennaio scorso, il tabù della risposta armata contro il popolo, ha ribaltato, forse imprevedibilmente, la posta in gioco. Se il paese venisse risucchiato nella spirale di un odio interconfessionale, facendo riemergere gli estremisti più violenti, la scommessa della stabilità fallirebbe clamorosamente per i militari. E la corsa al potere, anche in vista delle imminenti chiamate alle urne, potrebbe facilmente tramutarsi in un’escalation di rivendicazioni e violenze. E questo non farebbe sfumare soltanto un’ambizione politica, ma manderebbe all’aria un paese intero.