“La morte di Gheddafi non è la vittoria dei valori della democrazia, ma solo il prevalere degli interessi di alcune tribù libiche su quelli di altre. La Primavera araba è un’invenzione dei media occidentali, ed è probabile che la guerra in Libia prosegua per la spartizione di soldi e risorse energetiche”. Ad affermarlo è il generale Carlo Jean, intervistato da Ilsussidiario.net sulla fine del rais sorpreso a Sirte dai ribelli. Dopo le notizie iniziali sulla sua cattura, secondo le quali sarebbe stato colpito a entrambe le gambe mentre cercava di fuggire, si è saputo che il dittatore era stato ucciso.



Generale, qual è il valore militare della presa di Sirte e dell’uccisione di Gheddafi?

Il valore militare della presa di Sirte è notevole. Significa che ora i ribelli hanno totalmente in mano la strada costiera, l’arteria principale che collega la Cirenaica e la Tripolitania. Inoltre, l’uccisione di Gheddafi toglie parecchia forza alla possibilità di una resistenza prolungata, perché il rais aveva ancora in mano i fondi con cui pagava i mercenari. Anche se il figlio Seif al-Islam è ancora alla macchia ed è possibile che assuma il potere del padre e riesca a trovare un accordo tra le tribù che finora sono state fedeli a Gheddafi.



Quale prevarrà tra le diverse anime dei ribelli?

E’ questo il grande problema che ci attende nei prossimi mesi. La Libia è divisa, non solo tra la Tripolitania e la Cirenaica e tra laici e islamisti, ma anche tra le varie tribù. Queste ultime sono spesso divise da rancori, odi e competizioni secolari. Questo finora ha impedito al Consiglio nazionale transitorio (Cnt) di nominare un governo provvisorio, che doveva essere instaurato già l’1 settembre scorso. Domani (oggi, Ndr) sarà dichiarata la liberazione della Libia e i capi del Cnt dovrebbero dare le dimissioni. Rimane però il problema che le milizie sono estremamente frammentate, e quindi sarà molto difficile trovare una soluzione condivisa.



Fino a che punto è legittimo un paragone tra la Libia di oggi e l’Iraq del dopo Saddam?

In Libia la situazione è molto più difficile. L’Iraq infatti è uno Stato unitario fin dai tempi dell’occupazione turca. Mentre la Libia, anche quando faceva parte dell’Impero ottomano, non esisteva in quanto Libia perché era divisa in due governatorati, quello della Cirenaica e quello della Tripolitania.

Ma i libici, che non sono riusciti a cacciare Gheddafi da soli, ora riusciranno a creare uno Stato democratico con le loro forze?

Innanzitutto non sarà uno Stato democratico. In una società pre-moderna come quella libica non è possibile una democrazia di tipo occidentale, che richiede una nazionalizzazione delle masse, il prevalere dei diritti individuali su quelli collettivi, l’esistenza di un’idea di nazione e di Stato. In Libia tutto questo non c’è, e perché queste condizioni possano formarsi occorreranno delle generazioni.

 

Eppure la rivolta si ispirava a dei valori ideali di libertà e uguaglianza …

 

Quei valori sono una farsa creata dai media occidentali. Tutta la Primavera araba è un fenomeno che noi abbiamo definito così perché amiamo credere in quello che speriamo. Ma di fatto in Tunisia è stato un colpo di palazzo e in Egitto un golpe militare. Mentre in Libia è una guerra civile in una società tribale, con l’intervento occidentale che ha consentito il prevalere degli interessi di una parte rispetto a quelli dell’altra.

 

Ma se la posta in gioco non era la democrazia, qual era in realtà?

 

La spartizione delle ricchezze del Paese. Quindi quella che è stata presentata come una vittoria dei valori dell’Occidente, è in realtà solo la vittoria di una fazione.

 

Quali saranno le conseguenze per l’Italia della caduta di Gheddafi?

 

Per l’Italia la stabilità della quarta sponda del Mediterraneo è fondamentale. E il protrarsi di una guerra civile in Libia può destabilizzare anche i Paesi vicini, con conseguenze sui flussi migratori dal Maghreb all’Europa. L’instabilità impedisce per esempio il ripristino della funzionalità degli stabilimenti petroliferi. Ma la stabilità può essere ottenuta solo grazie a un compromesso tra varie realtà, ciascuna delle quali cercherà di prevalere e di imporsi sull’altra. Ha ragione quindi il ministro degli Esteri, Franco Frattini, quando insiste sulla necessità di una riconciliazione nazionale, sul fatto cioè di trovare anche in Libia un modus vivendi per non massacrarsi. Il rischio infatti è che la guerra continui, e da un conflitto per cacciare Gheddafi si trasformi in uno scontro per la ricchezza, il potere e le risorse energetiche.

 

Ora che Gheddafi è morto, le tribù non hanno ottenuto il loro obiettivo?

I loro veri obiettivi sono la ricchezza e il potere, e ciascuna delle variegate componenti della società libica ha degli interessi che cercherà di massimizzare. Dal momento che la ricchezza libica non è infinita, la competizione è un gioco a somma zero il cui effetto è quello di portare all’anarchia.

 

Perché a Sirte i lealisti si sono immolati fino all’ultimo per difendere Gheddafi?

 

Perché non difendevano Gheddafi, bensì le loro posizioni di privilegio ottenute grazie al rais. Queste tribù ora temono la vendetta dei vincitori, come succede al termine di tutte le guerre civili. Lo abbiamo visto in Francia e in Italia, dove la vittoria della Resistenza non è avvenuta senza spargimenti di sangue. E se ciò è accaduto nella progredita Europa, figuriamoci che cosa accadrà in una società primitiva come quella libica.

 

Che cosa può fare l’Italia per favorire una transizione pacifica in Libia?

 

L’Italia, come la stessa Francia, ha ben poche possibilità di intervenire in quanto Stato. Le possibilità sono soprattutto di carattere economico, cioè l’invio di aiuti umanitari e sanitari. Ma soprattutto, la nostra punta di diamante sono le piccole e medie imprese con joint venture in Libia, che con il savoir faire tipicamente italiano potrebbero trovare le porte aperte a Tripoli e Bengasi. Il mio consiglio all’Italia è quindi quello di aumentare i fondi di Simest (la società che facilita l’internazionalizzazione delle imprese italiane all’estero) e Sace (l’assicurazione per il commercio estero), in modo fa fare affluire il più rapidamente possibile le piccole e medie imprese italiane in Libia.

 

Quali sono gli errori che nei prossimi mesi l’Occidente dovrà evitare?

 

La cosa migliore è consentire ai libici di fare da soli. Un accordo imposto dall’esterno è impossibile, anche perché ai libici dei massimi sistemi occidentali sulla democrazia importa ben poco.

 

(Pietro Vernizzi)

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