Dopo quasi un anno dalla capitolazione di Ben Ali il test delle elezioni libere e democratiche per la Tunisia è arrivato. Il paese che ha lanciato l’onda della cosiddetta Primavera araba è stato anche il primo ad iniziare la sua pars construens, solo e obbligato passaggio in grado di nobilitare davvero la lunga e travagliata pars destruens cui abbiamo assistito nei mesi successivi al crollo dell’ancien régime. Perché la cosiddetta “transizione democratica” possa davvero essere benedetta, dopo essere stata tanto agognata, ce lo dirà, infatti, il periodo che da oggi si apre per la Tunisia, la fase più difficile che, dopo la distruzione del vecchio ordine e l’instaurazione di un equilibrio di aspirazione democratica, dovrà consolidare la transizione, renderla solida e difficilmente sovvertibile.
La partecipazione di oltre il 90 per cento della popolazione alle elezioni svoltesi il 24 ottobre, l’assicurazione da parte degli osservatori internazionali sul fatto che lo spoglio si sia svolto in maniera corretta (per la votazione si era, inoltre, adottato il metodo del dito intinto nell’inchiostro proprio per evitare voti doppi, errori e consequenziale annullamento di molte schede, come succedeva nei tempi di Ben Ali), la cooperazione degli attori politici, di quelli mediatici e dei militari sono segnali di un’orgogliosa e sacrosantamente legittima ostentazione della capacità di cambiare.
Le elezioni in Tunisia rappresentano una lezione importante per noi occidentali che – troppo presto forse rispetto al minimo sindacale del tempo necessario a riorganizzare paesi reduci da diversi decenni di dittatura – da tempo avevamo già cominciato a parlare di “rivoluzioni mancate” o “rivoluzioni abortite”. Il futuro di molti paesi che hanno tirato giù il dittatore dal piedistallo del potere è senza ombra di dubbio incerto e la presenza di attori minacciosi per un vero e completo passaggio alla democrazia (come la persistente presenza sulla scena politica dei militari in Egitto), rende gli scenari futuri molto aperti.
La chiamata alle urne tunisine, svoltasi in modo limpido e soprattutto pacifico, tuttavia, non può non lasciarci stupiti di fronte alla bravura con cui questi neofiti della democrazia hanno saputo rapidamente dar prova di buon utilizzo dei suoi strumenti. Che poi il partito vincitore di queste elezioni non ci piaccia questo è invece un altro discorso. E’, d’altra parte, da sempre l’enigma della democrazia lo scontro tra il principio della libera espressione del popolo nella scelta dei suoi rappresentanti e il rischio che a venire democraticamente eletti siano attori dalle aspirazioni non propriamente democratiche. Ma questa è anche, ad essere onesti, la nostra visione dell’Islam. L’idea recondita e culturalista che l’Islam sia incompatibile con la democrazia, dimenticando che un esempio di questa congiuntura, controverso ma pur sempre effettivo, esiste già nel mondo ed è rappresentata dalla Turchia di Erdogan.
Al-Nahda è un partito che ha costruito la sua base di consenso mettendo in atto politiche di welfare alternativo a quello di uno stato troppo deficitario in questo campo: nelle campagne povere della Tunisia ha distribuito sacchi di beni alimentari, ha pagato matrimoni a chi non poteva permetterselo, libri di scuola, matite, penne e quaderni ai figli dei poveri. La strategia di al-Nahda in questo è assolutamente comparabile a quella di tutti i partiti a fondamento islamico del mondo arabo. Lo stesso hanno fatto i Fratelli Musulmani in Egitto, partito da cui al-Nahda ha tratto ispirazione al momento della sua costituzione, Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza. E’ una tattica consolidata capace di vincolare la fedeltà politica delle classi meno abbienti ma anche demograficamente più consistenti.
Ed è proprio attraverso questa strategia che Al-Nahda si è conquistato quasi il 40 per cento in questa tornata elettorale, forte anche di un contesto politico largamente frammentato in partiti piccoli e poco strutturati.
Quello che però forse dovremmo fare di fronte a questa “Rinascita” (al-Nahda in arabo significa proprio ciò) islamica è aspettare di vedere quanto i provvedimenti della nuova élite dominante saranno in grado di aderire all’offerta con cui essa ha vinto le elezioni. Al-Nahda è un partito conservatore rispetto ai valori islamici, ma liberale dal punto di vista economico e almeno apparentemente tollerante rispetto alle fazioni laiche della società. Dichiara di ispirarsi all’AKP turco e mette tra i suoi obiettivi prioritari la crescita economica.
Che ci vada a genio o no è questo l’attore politico con cui dovremo dialogare e fare i conti nel primo dei paesi che si è dato un nuovo ordine politico dopo le rivoluzioni del 2011. Abituandoci anche all’idea che nei prossimi esperimenti politici l’Islam sarà sempre più presente dall’altro lato del Mediterraneo e che con esso si dovrà gioco forza dialogare.
Dal punto di vista interno, invece, la sfida che al-Nahda si giocherà adesso è incentrata soprattutto intorno a un punto: la capacità di saper dare al paese quella stabilità politica necessaria da ispirare fiducia presso gli investitori esteri, attuando politiche urgenti che siano prima di tutto volte a creare posti di lavoro in un contesto in cui la disoccupazione giovanile tocca ormai il 22 per cento. E’ questo ciò per cui, in fondo, è scoppiata la rivoluzione dei Gelsomini e, di seguito ad essa, tutte le altre rivoluzioni arabe. In un mondo arabo in cui nel 2020, solo per mantenere gli attuali livelli di disoccupazione, occorrerebbe creare 50 milioni di nuovi posti di lavoro…