Con la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di fissare per lunedì prossimo, 31 ottobre, il termine del mandato della missione militare della Nato in Libia, l’appello del presidente del Consiglio libico di transizione, Mustafa Abdel Jalil, a che invece essa continui fino al 31 dicembre, e l’iniziativa del Qatar che si propone a capo di una nuova coalizione che dovrebbe sostituire la Nato quando essa si ritirerà dalla scena, ci sono tutti gli elementi perché – come era facile prevedere – ancora una volta l’intervento di forza dell’Occidente in una crisi politica nell’emisfero Sud apra la via a una situazione di instabilità senza fine. 



Gheddafi è scomparso, ma rimane la sua tribù, che ha il proprio centro a Sirte ed è una delle maggiori del Paese. Gheddafi è scomparso ma resta la cruciale rivalità fra Tripoli, capitale politica, e Bengasi, nel cui territorio è situata la massima parte dei giacimenti di idrocarburi della Libia. Gheddafi è scomparso, ma voler far credere che per ciò stesso la Libia diventi in pochi mesi democratica è segno o di clamorosa incompetenza o di spudorata malafede. Non è certo prolungando sine die una pressione militare straniera, e anzi tramutandola in un vero e proprio presidio, che si potranno affrontare e risolvere in tutta la misura del possibile quei problemi di fondo della Libia che, dopo aver fatto saltare il regime di Gheddafi, se ignorati renderanno il dopo-Gheddafi ingovernabile.  



L’unica via d’uscita possibile è quella politica, non quella militare. Occorre – diciamolo ancora una volta – puntare piuttosto a convocare al più presto una conferenza nazionale libica di riconciliazione, cui partecipi da subito anche la tribù da cui proveniva Gheddafi, e dalla quale esca un nuovo modus vivendi tra Tripolitania e Cirenaica che possa essere accettato da ogni parte in causa. Piuttosto che una nuova coalizione militare ci vuole una coalizione diplomatica sotto la cui ègida tale conferenza possa venire convocata e gestita per il meglio; e nessun Paese è più adatto del nostro a promuoverla. Ciò detto non bisogna dimenticare una cosa ovvia, ma ciononostante troppo spesso trascurata: la Libia non è un’isola in mezzo agli oceani, bensì nient’altro che un segmento di un’ampia e importante fetta della riva sud del Mediterraneo che, dalla Tunisia fino alla Siria, è tutta quanta in piena ebollizione. 



Rispetto a questa crisi considerata nel suo insieme è necessario elaborare una linea di politica estera complessiva, che a mio avviso deve ruotare, come già si diceva, attorno a una programma euro-mediterraneo di sviluppo condiviso. E’ dentro un quadro del genere che si possono affrontare positivamente i vari singoli casi, fino a quello più preoccupante della Siria dove un collasso cruento del regime avrebbe effetti più che mai catastrofici. L’unica alternativa all’intervento di forza inteso a far sì che il regime di Assad esploda non è l’assedio diplomatico inteso a far sì che esso imploda. C’è anche un’altra possibilità: quella di favorire e sostenere una sua fine concordata, tipo quella che consentì al Cile di passare da Pinochet alla democrazia senza bagni di sangue. 

Sarebbero capaci di una tale impresa gli allegri buontemponi che da quel che si vede alla tv non fanno altro a Bruxelles che scambiarsi pacche sulle spalle e affettuose strette di mano salvo poi farsi la forca l’un l’altro appena possibile? Sarebbe capace di una tale impresa la bionda signora che con un cinismo senza paragoni sbotta in un irresponsabile “wow” alla vista su un telefonino dell’immagine del volto sfigurato del cadavere di Gheddafi? Questo è il problema. 

 

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