Venerdì scorso il ministro degli Esteri, Franco Frattini, si è recato a Tripoli ad incontrare il leader del governo provvisorio della Libia. Non sembra che l’incontro si sia concluso con il rituale comunicato congiunto (forse perché a Tripoli nemmeno la diplomazia è ancora tornata alla normale amministrazione), ma in una conferenza stampa convocata al termine dei colloqui Frattini ha detto che le nuove autorità libiche gli hanno confermato il riconoscimento del ruolo di partner storico che l’Italia ha in Libia, assicurandogli inoltre che tutti gli accordi in atto tra i due Paesi restano validi. Frattanto l’Eni ha rimesso in funzione il gasdotto sottomarino attraverso il quale il gas estratto in Libia giunge da noi.



Sono queste due importanti buone notizie, anche se i giornali e i telegiornali italiani, in tutt’altre faccende affaccendati, ne hanno dato un’eco relativamente scarsa, tutti assorbiti come erano dalla… cruciale vicenda del passaggio o meno da Napoli a Bari dell’inchiesta sulle “escort”. Per fortuna del nostro Paese, ma anche della Libia, i fatti cominciano di nuovo a contare di più delle maldestre ambizioni della Francia di Sarkozy e della Gran Bretagna di Cameron. E i fatti sono i pluridecennali investimenti italiani in Libia, il gasdotto dell’Eni di cui si diceva, gli importanti investimenti del fondo sovrano libico in Italia nonché i vari accordi italo-libici di cooperazione sia civile che militare sospesi ma non annullati allo scoppio della rivolta contro Gheddafi; e alla base di tutto ciò le relazioni culturali, eredità comunque positiva del passato dominio coloniale italiano sul Paese. Un dominio purtroppo anche segnato da innegabili crimini, che ad ogni modo non giustificano l’iniqua espulsione dei coloni italiani ordinata da Gheddafi all’inizio del suo regime.



Lo scorso 22 giugno il nostro governo aveva chiesto alla Nato la sospensione dei bombardamenti sulla Libia prendendo finalmente le distanze da una guerra che era stata voluta dalla Francia di Sarkozy nell’evidente tentativo di cogliere la rivolta contro il regime di Gheddafi come una buona occasione per entrare sulla scena libica almeno in parte ma possibilmente in toto al nostro posto. Come da subito ci permettemmo di far rilevare, il nostro governo si mosse allora poco e male, senza trovare il coraggio di non accodarsi alla Francia e all’Inghilterra, come la Germania fece senza che in sede Nato nessuno ci trovasse niente da dire. D’altra parte l’attacco alla Libia era così difforme e ingiustificato rispetto alle clausole del trattato su cui la Nato si fonda che non c’era il minimo appiglio per censurare chi se ne era tenuto fuori.



Ad ogni modo adesso è importante guardare avanti, e in tale prospettiva salvare il salvabile è importante ma non basta. Occorre comunque prendere le mosse al meglio dallo sconquasso avvenuto per reimpostare i rapporti con la Libia in modo da rafforzarli nel quadro di un grande progetto di sviluppo condiviso. Se ben aiutata la Libia può diventare insieme all’Algeria il motore finanziario di un nuovo Nordafrica manifatturiero impegnato a produrre beni di consumo a prezzi sostenibili per i mercati dell’Africa sub-sahariana, il cui tenore di vita, pur basso, è comunque da anni in via di miglioramento, e sta comunque sentendo relativamente poco gli effetti della crisi economica internazionale in atto.

Dalla vendita del suo gas e del suo petrolio sui mercati internazionali la Libia ha ricavato enormi risorse finanziarie, per investire attivamente le quali ha però bisogno di partners che siano economie avanzate e di grandi dimensioni. È evidente che, per i motivi e storici e geografici e strutturali più sopra ricordati, il nostro Paese è il candidato naturale a questo ruolo. Si può buttare via questa storica occasione, tanto più importante tenuto conto della grave crisi economica internazionale in atto? Ci pare di no. In questa prospettiva, per evitare che un’instabilità prolungata comprometta sine die le potenzialità della Libia, è importante che il nostro governo si impegni a fare comunque adesso ciò che avrebbe dovuto fare all’inizio della rivolta contro Gheddafi: adoperarsi per trovare un’“uscita di sicurezza” concordata al Colonnello, tale da garantire a lui e ai suoi un pacifico esilio da qualche parte; e a mettere con certezza la tribù cui appartiene al riparo da vendette e discriminazioni. Altrimenti la Libia precipiterebbe comunque in una fase di instabilità prolungata che sarebbe nefasta per tutte le parti in causa, Italia compresa.

 

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