Da ieri l’Autorità palestinese non è più solo «osservatore» ma membro a pieno titolo dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Con 107 voti a favore, 14 contrari e 52 astenuti l’organismo dell’Onu ha accolto le istanze dei palestinesi, che dopo reiterati tentativi son riusciti ad entrare nell’Organizzazione. L’esito del voto, accolto come una «tragedia» in Israele, ha scatenato l’ira degli Usa, che hanno dichiarato di voler togliere i fondi all’Unesco. Dal canto loro, con questo risultato i palestinesi ottengono due obiettivi: innanzitutto trovarsi nelle migliori condizioni, in qualità di membro effettivo di un’Agenzia delle Nazioni Unite, per aumentare la pressione sul Consiglio di sicurezza e sull’Assemblea generale dell’Onu in favore della causa palestinese. Ma non solo. Esiste ora la possibilità per l’Anp di far includere nel patrimonio di interesse mondiale siti archeologici situati nelle zone più calde del confronto arabo-israeliano. E di evidente importanza strategica. E ora? «Penso che da oggi le probabilità di un buon esito del processo di pace siano sfortunatamente inferiori a quanto lo erano in passato» dice a Ilsussidiario.net Michael Herzog, giornalista di Haaretz.
Michael Herzog, come è stata accolta la notizia in Israele?
Con grande tristezza. Israele si è opposta e ha votato contro l’accettazione, sebbene non sia contraria all’idea di uno Stato palestinese. Israele, attuale governo compreso, in linea di principio lo ammette, ma esso dev’essere l’esito di un processo di negoziati. In ogni caso resta il fatto che i palestinesi non hanno atteso il pronunciamento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu o dell’Assemblea generale, ma hanno inteso anticiparlo attraverso l’Unesco.
Questo cosa comporta?
Alcune importanti iniziative pratiche, di importanza strategica. Per esempio, i palestinesi hanno già dichiarato la volontà di far riconoscere come patrimonio dell’Unesco certi siti della West Bank. Questo pone un problema, se pensiamo a cosa può significare per la città di Gerusalemme. E’ un atto che aggiunge un grave fardello alle relazioni israelo-palestinesi.
E rispetto ai negoziati del processo di pace?
Da un punto di vista di Israele, allontana la prospettiva della pace perché attesta che i palestinesi non confidano nei negoziati e preferiscono andare alle Nazioni Unite e ottenere quello che possono in quella sede. Così la mossa dei palestinesi è stata interpretata dal governo di Israele. Penso che da oggi le probabilità di un buon esito del processo di pace siano sfortunatamente inferiori a quanto lo erano in passato.
Ora Israele che cosa intende fare?
Il ministro degli Esteri ha appena annunciato che Israele sta considerando l’ipotesi di cessare la cooperazione con l’Unesco, ma la decisione non è stata ancora presa. Come sa, fin dal ’90 gli Stati Uniti sono vincolati da una legge ad interrompere ogni finanziamento all’Unesco qualora esso accetti la Palestina come Stato; Israele sta soppesando le sue opzioni e penso che deciderà al più tardi questa settimana. Per adesso sta prendendo in seria ipotesi la cessazione. Decidere spetta al governo e al primo ministro.
Ma secondo lei è giusto che gli Usa interrompano il loro supporto all’Unesco?
Non sono in una posizione tale da poter dire agli americani cos’è giusto e cos’è sbagliato. Capisco bene perché vorrebbero tagliare il supporto all’Unesco o ad altri organismi, anche se starei molto attento all’uso di questo metodo. Non penso che una decisione al riguardo dovrebbe essere per così dire «automatica».
È nota la scarsa simpatia che intercorre tra l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura e gli Stati Uniti. Lei come spiega il voto di ieri?
Si tratta in ultima analisi di un voto politico. Ogni Stato decide come votare secondo la sua posizione politica. Anche i Paesi europei hanno votato divisi. Alcuni si sono astenuti, altri hanno votato contro, come la Svezia e l’Olanda, altri – come la Francia – hanno votato a favore. Non sono sorpreso.
E della posizione assunta dall’Italia, che si è astenuta in mancanza di una posizione unitaria dell’Ue, che cosa pensa?
Credo che abbia agito in modo più saggio di quanto ha fatto la Francia, per esempio. Capisco che la maggioranza dei Paesi europei non vogliano apparire contrari all’idea della creazione di uno Stato palestinese; anche se la vera questione non riguarda l’esistenza di esso, ma il «come» questo debba avvenire. E infatti, chi ha votato contro o si è astenuto lo ha fatto persuaso che quella messa in atto è una misura problematica, che non contribuirà al processo di pace ma intensificherà le tensioni tra le parti.
Con questo indubbio risultato, i palestinesi raggiungono un importante traguardo strategico. Israele ha commesso degli errori?
Penso che la posizione di stallo nella quale ci troviamo, senza negoziati, sia il risultato di errori fatti da tutte le parti interessate. Quello dei palestinesi è stato di avanzare troppe condizioni, diversamente da quanto fatto nel 2000 a Camp David e nel 2007 ad Annapolis. Israele ha sbagliato a non iniziare l’ultimo confronto presentando la sua posizione e definendo i suoi parametri di pace. Dal canto loro gli Usa hanno sbagliato a porre come requisito il congelamento totale delle attività dei coloni e a concentrarsi completamente, in modo non realistico, su questo punto. Questi errori si sono alimentati a vicenda e ci hanno portato nella situazione in cui siamo oggi. Tra le parti non c’è fiducia, ognuno pensa che l’altra non sia un costruttore di pace credibile e questo spinge tutti verso misure unilaterali che possono essere molto pericolose.
E dunque?
Sono preoccupato che le cose possano aggravarsi e recare un danno irreversibile al processo di pace.
(Federico Ferraù)