Sostenere che i trattati dell’Unione europea si possono anche cambiare, come ha fatto di recente Angela Merkel, e che quindi sulle istituzioni europee si può anche discutere, era sin qui un tabù rigorosamente osservato dall’ordine costituito politico e giornalistico del nostro Paese (il che, rileviamo per inciso, la dice lunga sul clima apodittico e neo-autoritario che caratterizza, da noi ma non solo, tutto ciò che attiene all’“Europa”, ossia all’Unione europea). Bastava dire una parola contro l’Unione europea così come è oggi per venire accusati di essere “euroscettici”: un’ignominia senza scampo. Adesso però che l’ha detto Angela Merkel il tabù è caduto. E quelli che, come me, lo dicevano già in precedenza non possono che essere i primi a compiacersene.
Stiamo attenti a non cadere riguardo agli affari europei in una trappola simile a quella che Cavour tese con successo durante il Risorgimento, quando riuscì a far passare per retrogradi, per anti-risorgimentali o per utopisti tutti coloro che, a partire da Antonio Rosmini e da Carlo Cattaneo, volevano un’Italia diversa da quella rigorosamente sabauda alla quale mirava lui. E’ chiaro che le modifiche ai trattati cui ha pensato Angela Merkel riguardano specificamente la moneta e il debito pubblico degli Stati membri, e mirano in sostanza a dare peso anche formale al ruolo della Germania nell’Unione, trasformando la sua attuale egemonia in uno stabile predominio: un obiettivo che molti Stati membri, e l’Italia fra questi, non possono di certo condividere. Importa però qui il fatto in sé dell’apertura del dibattito politico sui trattati europei: un varco che non va affatto chiuso, ma anzi tenuto ben aperto e allargato.
Considerata nel suo insieme l’Unione europea è la prima economia del mondo, e con i suoi quasi 500 milioni di abitanti è terza per popolazione nel mondo dopo la Cina e l’India. Estendendosi dalla Svezia a Cipro fra il Circolo polare artico e le acque del Mediterraneo antistanti il Vicino Oriente, e dal Portogallo alla Romania fra l’Oceano atlantico e il Mar Nero, è poi uno spazio-geopolitico di grandissimo interesse. L’euro, la moneta comune di una buona parte dei suoi membri, pur con tutti i suoi limiti e pur con tutto quello che ci è costato, è giunto rapidamente ad affiancare il dollaro americano nel ruolo di moneta di riferimento dell’economia mondiale. Stando così le cose è ovvio che si tratta di una scelta da cui non conviene tornare indietro. Ciò detto occorre però domandarsi subito che cosa si deve fare, perché un così grande potenziale non soltanto resti in larga misura inutilizzato, ma anzi si attui talvolta in modo perverso, come bene si è visto in queste ultime settimane.
Benché l’Unione sia una realtà compiuta soprattutto da un punto di vista economico, è molto significativo ad esempio che sui giornali e telegiornali si continuino a fare confronti tra singoli Paesi europei e la Cina. In realtà non ha senso alcuno dire che l’economia cinese è maggiore di quella di un singolo membro dell’Unione come la Germania. Il raffronto va fatto con l’Unione europea nel suo insieme, e a questo punto gli Stati Uniti vengono per secondi e la Cina per terza a grande distanza. Però è sintomatico che comunemente un tale raffronto non si faccia, il che accade perché evidentemente non ci si identifica con l’Unione nemmeno in quanto a spazio economico. E men che meno in quanto a spazio politico e ad ambito simbolico.
Così come oggi è l’Europa, o più precisamente l’Unione europea, non serve e non ci serve. Siccome però è vero che non possiamo più farne a meno, occorre a mio avviso impegnarsi a rifondarla con un processo che tuttavia parta non dalla coda bensì dalla testa: ovvero dall’affermazione senza sterili censure dei suoi fondamenti, e dalla riorganizzazione in forma democratica (ovvero ben diversa dall’attuale) delle sue istituzioni di governo, per arrivare infine alla sua politica monetaria. In questa prospettiva il Parlamento europeo – l’unica ad essere eletta democraticamente fra tutte le istituzioni dell’Unione, e l’unica che rappresenta il popolo e non gli Stati – avrebbe tutti i titoli per diventare innanzitutto un luogo di dibattito politico e un’assemblea costituente de facto, ma non sembra che lo faccia. Non so se per mancanza di forza o per mancanza di coraggio, ovvero sia per una cosa che per l’altra.
Oggi come oggi l’Ue è il principale focolaio di tendenze neo-autoritarie tecnocratiche del nostro Continente. E’ vero che non è soltanto questo, ma è questo in buona misura. Una burocrazia anonima – che sfugge a qualsiasi effettivo governo politico grazie alla diarchia tra Commissione e Consiglio, organi peraltro entrambi non legittimati da una specifica elezione democratica – tende a soffocare l’economia e la società europee proprio in un momento nel quale più che mai avrebbero invece bisogno di prendere slancio. E lo può fare, anzi è incoraggiata a farlo da un meccanismo perverso, che il trattato di Lisbona ha in effetti confermato, in forza del quale essa dispone – tra competenze esclusive, poteri di indirizzo e poteri di controllo indiretto connessi all’impiego dei fondi che eroga a Stati e a Regioni – di un arsenale di strumenti che le consentono di ingerirsi in ogni cosa calando sull’intero territorio dell’Unione una fitta maglia di soffocanti prescrizioni. Non solo, insomma, non rappresenta adeguatamente l’Europa sulla scena mondiale, ma anzi ne frena lo sviluppo. E’ una situazione che non si potrà sopportare impunemente ancora a lungo.
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