E’ difficile prevedere quello che succederà in Siria nel breve come nel lungo periodo, ma il complesso delle dinamiche interne ed esterne che in questi otto mesi di rivoluzione si sono susseguite sembra un rebus cui manca una lettera.
Per comprendere l’evoluzione della parabola siriana cerchiamo di ripercorrere gli eventi dall’inizio.
Quando le manifestazioni esplosero nella città di Deraa il 15 marzo 2011, per poi propagarsi in tutto il paese, il quadro che nell’arco di poche settimane si era delineato era quello di un regime forte, con il supporto interno dell’esercito – braccio della violentissima repressione che secondo l’Onu ha provocato fino ad ora oltre 3.500 morti – e un discreto e ufficioso supporto esterno. Bashar al-Assad sembrava, infatti, indispensabile all’equilibrio dell’intero Medio oriente: lo pensava la Turchia, allora ancora alleata di Damasco, lo pensava l’Iran, tuttora principale sostenitore di Damasco (seppur con un calando di entusiasmo negli ultimi tempi di fronte all’interesse sempre più impercettibile del mantenere ancora in vita un’alleanza con un attore ostracizzato da tutti); lo pensava Israele, che vedeva la sua fetta di confine con la Siria – le tanto contese alture del Golan – al sicuro sotto l’egida di Bashar: un can che abbaia tanto ma che, in fondo, non morde; lo pensava anche l’America, troppo vicina agli interessi di Turchia e Israele per chiamare precocemente ad una transizione democratica; lo pensavano, infine, anche i paesi arabi, per i quali la Siria è storicamente “al-rakam al-saabi fi al-mawdooaa” (il numero difficile dell’equazione): una pedina fastidiosa ma, tuttavia, troppo rischiosa da rimuovere.
Dal suo canto il regime di Assad continuava a reprimere le proteste, gridando ad un complotto di “bande armate provenienti dall’estero per destabilizzare il paese”. Bloccava l’ingresso ai giornalisti e alle missioni umanitarie e, recalcitrante ad ogni tipo di collaborazione offertagli dall’esterno, cominciava a costruirsi il suo isolamento internazionale. Dall’interno del paese le notizie filtravano attraverso dissidenti o attivisti che riuscivano a passare informazioni – impossibili da controllare – diffuse poi alle agenzie prevalentemente dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (che ha sede a Londra).
Il risultato fu che al principio di agosto, dopo 5 mesi di proteste e repressione, la Turchia prima e gli Stati Uniti poi chiedevano a Bashar di dare le dimissioni e farsi da parte. I paesi arabi del Golfo Persico, vicino agli Usa, più moderatamente ritiravano l’ambasciatore definendo “inaccettabile” il modo in cui Damasco aveva risposto alle proteste. Bizzarre le parole del re saudita che aveva appena mandato le sue truppe a pestare i manifestanti in Bahrein contro la monarchia di al-Khalifa vicina alla casa di al-Saud. Ma questa, si sa, è realpolitik.
La domanda che tutti, però, si ponevano era: chi può prendere il potere se Bashar va via? Il regime, al suo interno era (ed è) sostenuto dagli alawiti, la setta sciita da cui il clan Assad proviene, e dai cristiani, protetti storicamente fin dai tempi di Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente. Lo spauracchio dei Fratelli Musulmani, contro cui il regime di Damasco aveva sempre combattuto duramente rallentava intanto i bollori del blocco occidentale (Europa, America) e di Israele nel fare troppa pressione su Assad. La verità è che tolto il leone di Damasco, non si aveva la benché minima idea su chi potesse prendere il suo posto. La gente in Siria continuava nel frattempo a manifestare e il regime a reprimere. Ma per il mondo forse era troppo presto per rimuovere Bashar.
A settembre il quadro generale proveniente dal paese ha cominciato a modificarsi leggermente. La realtà della rivoluzione pacifica e non armata contro il regime di Damasco si è trasformata in una vera e propria guerra civile. Si è saputo – seppur con discrezione – che l’opposizione le armi le ha davvero e le usa (Bashar non ci ha mentito proprio su tutto allora) e che molte centinaia di persone a Damasco e Aleppo sfilano nella capitale in favore del regime. Così come di fronte all’espulsione della Siria dalla Lega Araba domenica scorsa i sostenitori del regime hanno assaltato le ambasciate dei governi ostili esprimendo il loro sostegno al potere di Assad. Che ci piaccia o no.
Se guardiamo all’interno della Siria, dunque, ci sono almeno due problemi da porci a questo punto: il primo riguarda la dimensione del supporto nei confronti di Bashar, che non abbiamo voluto o saputo misurare e che, tuttavia, crea una crisi di legittimità dell’opposizione speculare a quella – esistente – di legittimità del regime.
Il secondo concerne, invece, le armi in mano all’opposizione: difficile che esse provengano solo dagli ancora troppo pochi soldati disertori. Da dove giungono, dunque, queste armi?
Ritorniamo alle dinamiche esterne di sostegno e opposizione alla Siria: proprio nel momento in cui il regime ha cominciato ad apparirci molto più forte di quanto pensassimo, troviamo con sorpresa un quadro internazionale insofferente alla presenza di Assad e un quadro regionale che dalla Turchia ai “fratelli” arabi ormai ha deciso di far saltare il regime. Perché proprio adesso, dopo 8 mesi di repressione, gli attori regionali hanno deciso di mettere Assad alle strette?
Dietro questa conformazione nuova e inattesa sembra che ci sia un disegno preciso di transizione in cui i paesi esterni si sentono ormai pronti a tollerare il potenziale effetto destabilizzante della caduta del regime siriano. Per comprendere questo specifico passaggio, quello che solo ci può far recuperare la lettera mancante del rebus siriano, dobbiamo ritornare al 2 ottobre 2011 a Istanbul in cui Buhran Ghalioun, un oppositore del regime, esiliato da anni a Parigi, ha annunciato la formazione del Consiglio Nazionale Siriano.
Si è già discusso molto e si può discutere quanto si vuole della debolezza e artificialità di questa forza politica, che raccoglie tutte le componenti di opposizione dalle più laiche alle più tradizionalmente religiose. Eppure è proprio Buhran Ghalioun che nelle ultime settimane entra ed esce dal palazzo della Lega Araba al Cairo.
Ghalioun è forte del consenso della Turchia, trasformatasi ormai da fedele alleata a principale nemica di Damasco. Ankara promette ora sostegno finanziario e politico al nuovo organo designato per condurre la transizione; l’ambiziosa potenza anatolica ha scommesso il tutto per tutto sul Cns e non è disposta – oltre ad essere impossibilitata – a tornare indietro. Anche dopo il sospetto che dietro il risveglio dell’opposizione armata kurda ci sia in realtà proprio la mano vendicativa di Damasco. Ma è anche altamente probabile, d’altra parte, che proprio dal confine settentrionale turco provengano le armi che gli oppositori siriani imbracciano.
La Turchia sembra aver con la sua politica spinto i vicini arabi ad allinearsi sulle sue posizioni. Il regime di Assad, che comunque la legittimità per governare sul suo popolo l’ha persa quando ha aperto il primo fucile contro i civili, prima o poi cadrà. Le tempistiche sono difficili da prevedere, ma è noto che Damasco ha ormai le casse vuote e nessun amico, a parte il Libano e (forse) Iraq e Iran. Non certo potenze in grado di ribaltare la conformazione dell’opposizione regionale.
Se Assad cadesse presto, tuttavia, il Cns potrebbe incontrare molte più difficoltà ad affermarsi legittimamente in patria di quanto non venga riconosciuto – pragmaticamente – dagli attori esterni. Lasciando forse un vuoto di potere che dovrà essere prima di tutto il popolo siriano, dal suo interno, a colmare. Scegliendosi i governanti politici che vuole e non quelli creati ad arte dall’esterno. E questo, in una realtà frammentata come la Siria, non sarà per nulla facile.