L’Egitto è nel caos. Piazza Tahrir, il simbolo della primavera araba, è tornata a insanguinarsi. Tutto è iniziato sabato mattina. Quando è stato sgomberato un sit-in messo in piedi per chiedere giustizia per le repressioni subite dall’ex presidente Mubarak. In pochi istanti è scoppiato l’inferno. Con migliaia di cittadini che tiravano pietre contro la polizia. In seguito, la folla, ancora una volta, a pochi giorni dalle elezioni, è tornata a protestare. E’ scesa nelle strade per manifestare contro il consiglio militare (in particolare contro il suo capo, il maresciallo Hussein Tantawi) che, di fatto, ha assunto il potere. Nuovo regime, vecchi metodi. Cinque ragazzi, poco più che ventenni, sono morti, uccisi dalle forze di sicurezza, mentre si contano centinaia di feriti. Il governo, che rende conto alla giunta militare, fa sapere che nessuno dei suoi ministri si dimetterà. E annuncia che le elezioni si terranno comunque, imputando ai manifestanti la volontà di ostacolare la democrazia. Intanto, Bothaina Kamel candidata alle presidenziali, secondo quanto circola in rete, sarebbe stata arrestata. Abbiamo chiesto a Guido Olimpio, Corriere della Sera, di fare il punto della situazione



Alla luce dei fatti recenti, cosa sta accadendo in Egitto? La promessa di democrazia si sta esaurendo?

Non c’è dubbio che la rivoluzione si sia interrotta. Quasi subito, del resto. I militari che hanno costretto Mubarak ad andarsene e che hanno assunto il potere non sembrano intenzionati a lasciarlo tanto facilmente. Le loro ambizioni contrastano con le spinte di libertà del popolo egiziano.



Un film già visto?

Esatto. Sembra di assistere a quanto accadeva ai tempi di Mubarak, quando le proteste di chi scendeva in piazza venivano represse nel sangue dal regime.

Cosa potrebbe accadere, nella peggiore delle ipotesi?

Non è escluso che il Paese entri in una fase di violenze continue, come quelle che si sono verificate in precedenza. Tuttavia, va ricordato che la rivoluzione egiziana non è stata caratterizzata, salvo casi isolati, da episodi di terrorismo o violenza organizzata. Al contrario, se il regime militare dovesse persistere nella repressione, anche l’opposizione potrebbe alzare il tiro.  



Quali scenari si prefigurano per i cristiani?

Le minoranze cristiane hanno seguito le primavere arabe con molta preoccupazione. In Egitto, i copti sono stati vittime di attacchi, mentre in Siria temono che la caduta del regime, che bene o male garantiva un minino di protezione, possa determinare un ulteriore acuirsi delle violenze nei loro confronti. Del resto, in fasi come queste, la religione viene utilizzata per creare divisioni, e determinare tensioni che innescano altre violenze.

Laddove la situazione dovesse definitivamente deflagrare, è possibile che l’Occidente decida di intervenire militarmente?

E’ intervenuto di recente in Libia, e sappiamo con quante difficoltà. Nonostante le operazioni avrebbero dovuto rivelarsi meno complicate che altrove, dal momento che al potere non c’era un regime, ma un clan familiare. Di certo, in Egitto, senza l’appoggio decisivo alla rivolta degli americani, Mubarak non se ne sarebbe mai andato. E il legame tra la giunta militare e gli Usa è fortissimo. Tuttavia, qualsiasi intromissione, sarebbe rischiosa e, probabilmente, controproducente.

E se fosse messa seriamente a repentaglio l’incolumità dei civili?

Se ci fossero massacri di grandi proporzioni, l’Occidente potrebbe mettere a punto svariate pressioni, o azioni mirate. Ma è altamente improbabile che intervenga nuovamente. Anche perché, attualmente, ha dei problemi economici talmente rilevanti che prevalgono su tutto il resto.           

Il premier turco, Erdogan, di recente, si è mostrato molto attivo nel tentativo di estendere la sua influenza sui Paesi dove ci sono state le rivolte. Come si potrebbero configurare i rapporti tra Egitto e Turchia?

La Turchia sta tentando di allargare la propria autorità su territori che vanno dal Nord Africa, agli Stati ai propri confini. Di recente, ha fatto sentire il proprio peso in Libia e, soprattutto, in Siria, dove non si esclude un suo intervento militare a difesa della popolazione musulmano-sunnita, né la creazione di una sorta di cuscinetto al confine; in Egitto, invece, l’attivismo turco è condotto attraverso i Fratelli Musulmani, in ottimi rapporti con gli islamici turchi. Ma qui non ha, come non ce l’ha nessuno, la forza sufficiente per imporsi.  

Possiamo escludere che le manifestazioni di questi giorni siano fomentate da infiltrazioni legate all’estremismo islamico?

Dal Nord Africa al Medio Oriente, ogni qualvolta un regime entra in crisi e si provocano delle fratture, non c’è dubbio che una componente attiva nei disordini sia costituita da gruppi islamisti. Che possono essere di due tipi: alcuni pensano di guadagnarsi spazi di potere attraverso la militanza politica; altri usano le armi, ritenendo che la strada parlamentare non sia percorribile, o perché semplicemente più inclini alla violenza.

Quale anima prevarrà?

Il loro bilanciamento procede a fasi alterne e, ora, la situazione è talmente tumultuosa e soggetta a cambiamenti così repentini che è difficile fare una previsione su quale prenderà il sopravvento. D’altronde, all’inizio si pensava che l’Egitto sarebbe diventato democratico, ma al regime si è sostituita l’autorità dei militari.

Tra i manifestanti potrebbero esserci anche uomini di Al Qaeda?

E’ possibile. Dubito che l’associazione terroristica disponga della forza sufficiente per rivelarsi determinante. Ma, di sicuro, dei gruppi che si ispirano ad Al Qaeda cercheranno di prender parte a quanto sta avvenendo.  

Perché  Butaina Kamel, candidata alle presidenziali, è stata arrestata?

L’episodio va letto nell’ottica dell’incapacità, da parte delle autorità, di comprendere le proteste e nella prassi di liquidarle come operazioni pilotate dall’estero o da Al Qaeda. In questa prospettiva, il regime reagisce nell’unica maniera in cui è capace: con repressioni e arresti indiscriminati.

Trova che vi siano particolari assonanze con quanto sta avvenendo in Libia?

Il filo conduttore, senza dubbio, è l’instabilità. Si tratta, tuttavia, di due Paesi estremamente diversi. Non credo, ad esempio, che si possa affermare una sorta di legame tra i due all’insegna del panarabismo. Al momento, infatti, prevalgono i problemi interni. In Egitto, il principale è quello del fondamentalismo; il terrorismo di matrice islamica, di ispirazione Al-Qaedista, è sempre stato presente e periodicamente ha colpito. Ci sono zone come la Penisola del Sinai, inoltre, che sono “terra di nessuno”, in cui il fenomeno è decisamente presente.  Tuttavia, i Fratelli Musulmani – che, bene o male, sono abituati da sempre a partecipare  al gioco politico – sono in grado di inglobare le tendenze più estreme.

E in Libia?

Ad oggi non esiste un potere ben definito. Le milizie non sono state sciolte e c’è una forte competizione, sia militare che politica. Si tratta di una realtà ancora molto frastagliata. La decisione di non consegnare Saif al-Islamil figlio di Gheddafi, al tribunale dell’Aja, ma di processarlo in Libia, potrebbe rappresentare la volontà di una fazione di affermarsi rispetto alle altre, facendo rispettare le proprie volontà. Siamo ancora al tempo delle vendette. Non ci sono ancora i segnali di un potere che possa garantire il mantenimento dell’ordine.