Iniziano oggi in un’atmosfera rovente le elezioni parlamentari in Egitto, che si svolgeranno in tre distinte fasi. La prima, che si concluderà il 5 dicembre, coinvolgerà nove province tra cui il Cairo, la capitale. Quindi, dal 14 al 21 dicembre, si andrà al voto in altri sette governatorati. Infine in tutto l’Egitto orientale i seggi saranno aperti dal 3 al 10 gennaio. Le prime elezioni del dopo Mubarak iniziano in modo travagliato, accompagnate da scontri di piazza che solo nell’ultima settimana hanno provocato 48 morti. Per comprendere che cosa è in gioco in queste ore Ilsussidiario.net ha intervistato un testimone oculare delle proteste, lo scrittore egiziano Osama Habashy, che si sta recando ogni giorno in piazza Tahrir. E confida: “Il significato di queste elezioni è pari a zero, il futuro dell’Egitto si deciderà solo con le proteste che stanno attraversando l’intero Paese. Nella storia di questa rivoluzione l’elemento delle sorpresa è stato determinante fin dall’inizio, e tornerà a esserlo anche nei prossimi giorni”.



Habashy, qual è il significato delle elezioni che iniziano oggi?

Queste dovrebbero le prime elezioni dopo la fine della dittatura di Mubarak, durata per 30 anni. La prima volta cioè in cui la gente andrà a votare in massa, perché fiduciosa nel fatto che non ci saranno brogli. L’atmosfera che si respira al Cairo in queste ore è però ben diversa da quello che ci eravamo aspettati. La percezione è che i capi dell’Esercito insistano a tenere le elezioni nella data prefissata, e nello stesso tempo stiano preparando delle leggi per fare sì che con il voto non cambi nulla. Tutto il mondo si illude che sarà un passo importante per la democrazia. Ma in realtà, se vogliamo dire le cose come stanno senza giri di parole, il significato di queste elezioni è pari a zero.



Come valuta i dieci mesi di transizione dalla caduta di Mubarak a oggi?

Il mio Paese ha sbagliato strada ripetutamente. Il Parlamento che ci accingiamo a eleggere durerà in carica solo pochi mesi, poi dovremo tornare al voto. Inoltre tutto il sangue che abbiamo visto scorrere in piazza Tahrir è stato provocato dalla polizia, cioè da chi avrà il compito di proteggere chi si recherà a votare. E buona parte dei candidati alle elezioni sono stati decisi dall’Esercito: è facile quindi prevedere a chi presteranno ascolto una volta eletti.

Quali partiti in particolare sono più vicini ai militari?



Quelli dei Fratelli musulmani e dei salafiti. Tanto è vero che questa settimana sono stati gli unici a non scendere nelle strade a protestare insieme ai giovani. Con la conseguenza che il consenso dei partiti islamici tra la gente si è quantomeno dimezzato: se si fosse votato sette giorni fa i Fratelli musulmani avrebbero preso il 30%, ora se va bene otterranno il 15%.

 

E’ elevato il rischio di brogli elettorali?

 

Sì. Lo stesso sistema elettorale adottato li favorisce in tutti i modi. L’Egitto sarà diviso in tre zone, e in ciascuna di esse si voterà in tre fasi differenti. E i regolamenti sono completamente diversi da provincia a provincia. Tutto è stato organizzato in modo così confuso, che gli stessi magistrati hanno sollevato forti perplessità. Ma il rischio brogli non è nemmeno l’ipotesi peggiore …

 

In che senso?

 

Nel senso che il periodo delle elezioni non sarà pacifico. Il rischio peggiore è quello di violenze nei giorni del voto, l’atmosfera che si respira in Egitto in questi giorni prelude infatti a questo. Già sabato ne abbiamo avuto un assaggio, con delle gang di carcerati evasi dalle galere che hanno attaccato le questure. Sono armati di pistole e rubano di tutto, dalle auto a ciò che si trova negli appartamenti, e sabato nel corso di una rissa tra gang sono rimaste ferite 87 persone. Non è un caso che avvenga proprio in questo momento. La polizia infatti conosce nomi e indirizzi di ciascuno di questi criminali, ma li lascia liberi perché vuole che la gente abbia paura.

 

Lei spera che domani gli egiziani vadano a votare o no?

 

Lo spero, ma la realtà è che la gente non riesce a capire che senso abbia votare per un Parlamento che non avrà i poteri di qualsiasi altro Parlamento nel mondo, neppure quello di votare la fiducia al governo. Figuriamoci criticare l’operato dell’Esercito …

 

Che cosa avverrà ora?

Il gioco è finalmente a carte scoperte. I ragazzi di piazza Tahrir vogliono che il governo dei militari finisca una volta per tutte, ma l’Esercito non intende rinunciare al potere. L’Esercito non accetterà mai che l’autorità finisca nelle mani dei civili, ma dall’altra parte i giovani sono disposti a morire. Ciascuno dei due vuole spezzare la volontà dell’altro, e fino a quando uno dei due non prevarrà le manifestazioni continueranno.

 

Come si deciderà il futuro dell’Egitto?

 

Di certo non con le elezioni, che sono soltanto una questione di facciata. Il futuro dell’Egitto si decide invece in piazza Tahrir, dove solo nell’ultima settimana sono morti 48 ragazzi, dove i giovani hanno visto cadere i loro fratelli e hanno capito che dopo tutto il sangue versato non possono più arrendersi o tornare nelle loro case. E l’Esercito, anche se dovesse affrontarli con tutta la forza a sua disposizione, non riuscirà a spaventarli né a spezzare la loro volontà. Oggi i manifestanti non vogliono più una dittatura militare in Egitto, e non si accontenteranno di un compromesso. Quanto sta avvenendo oggi è lo stesso che è avvenuto negli ultimi giorni di Mubarak.

 

Lei in questi giorni è stato in piazza Tahrir, e se sì che clima ha trovato?

 

Ci sto andando tutti i giorni. Numerosi manifestanti trascorrono la notte nelle vie circostanti, per impedire alla polizia di entrarvi. Il bello di questa rivoluzione è che tutto dipende da una sorpresa. Non sappiamo quindi che cosa accadrà in futuro. Adesso però sta nascendo una nuova generazione, i bambini dai dieci anni in su non vanno a scuola ma vengono in piazza Tahrir. E la loro educazione è fornita loro direttamente dall’esperienza che stanno vivendo in questi giorni.

 

Com’è la situazione nel resto dell’Egitto?

 

Le proteste in corso sono centinaia, in tutte le province. Nelle altre città i manifestanti non sono numerosi come in piazza Tahrir, ma le richieste sono ovunque le stesse: la fine del governo militare e delle violenze della polizia.

 

(Pietro Vernizzi)