Hatice era una giovane donna, una giovane madre di quattro figli. La vediamo nelle fotografie con il suo chador scuro, bel volto, bei tratti. E’ diventata famosa, Hatice, un simbolo di pace per il suo paese. Perché è morta, salvando la  vita, pare, a tante persone, anzitutto ai suoi ragazzi. E’ accaduto in una cittadina a est della Turchia: era appena uscita da un centro commerciale, c’era da sistemare il guardaroba dei ragazzi,  crescono così in fretta. Vede una donna, come lei vestita di nero, che si affaccenda con gesti strani. Un lampo, le pare di capire, di scorgere nel suo sguardo, o nel suo atteggiamento, il segno della follia suicida. Si getta su di lei, lotta, la supplica: aveva ragione. È una bomba umana, vuole fare una strage. E lo preme, quel maledetto pulsante, esplodono insieme, le due donne, un boato di schegge e sangue e dolore. Una ventina di feriti, e  anche quei ragazzi sconvolti, che cercano la mamma, dopo l’esplosione, e non la vedono più. Ma capiscono, ci sono testimoni. Il suo coraggio ha attutito la violenza dell’ordigno, il suo corpo ha fatto da scudo, ha assorbito la prima furia del male. I figli di Hatice sono salvi. E piangono, di dolore e di orgoglio.



Chi delle due donne è la martire? Quella che ha scelto la fine del kamikaze,  che ha offerto la sua giovane vita per la causa dell’indipendenza curda? Si trattava infatti di un attentato ordito dai separatisti del PKK, il movimento separatista di quella stirpe antica e martoriata, dalla storia e  dai popoli che la circondano. Una causa giusta. Un modo sbagliato, feroce, indifendibile, di sostenerla. Che scatena solo altro odio,  e intolleranza, e vendette.  Cosa c’è di più devastante che scegliere di finire a brandelli, per un’idea? Si può morire, per  un ideale, ma combattendo a viso aperto, con le braccia e la ragione. Non morendo e facendo morire a tradimento, giustificati da un dio che chiede sangue per donare gloria ed eternità. Si può rischiare di morire, si può osare sfidare la morte. Non la si può desiderare, invocare, immolando se stessi per uccidere degli innocenti. E’ chiaro, la martire è Hatice. La donna vera, la madre, che salva i suoi figli, e la natura dell’essere donna e madre.



Chiamata a dare la vita, non a toglierla. A scegliere il sacrificio supremo, per salvare, proteggere, amare.  Non importa che abbia agito d’istinto, che non avesse coscienza fino in fondo della fatalità di quell’attimo cui andava incontro. E’ proprio l’istinto buono, lo slancio che ci muove davanti all’emergenza, a  dire quel che siamo, quel che desideriamo e speriamo. Hatice voleva tornare a casa, con i vestiti nuovi dei suoi ragazzi. Voleva preparare loro la cena, cantando, sgridarli perché la casa è in disordine, pregare con loro, aspettare che tornasse a casa il papà. Voleva vivere, Hatice, per questo è morta. Per questo i suoi figli l’avranno viva per sempre.



Non credo vorrebbe essere celebrata come un’eroina. Un paese ha bisogno di un eroismo quotidiano, che non fa scalpore, che costruisce, con pazienza e tenacia. Innalzare altari agli uomini produce fanatismo, da diverse parti, toglie la splendida immediatezza dell’umano che si fa riconoscere, che ci fa grandi. Troppi martiri in quel pezzo d’Oriente, o chiamatelo Europa, quello spicchio di terra che con l’Europa però ha solo e sempre lottato, o l’ha guardata dal Bosforo con sospetto e invidia. Sappiamo i nomi di sacerdoti martiri della fede. E nessuno li considera eroi. Sappiamo che Hatice è con loro, vicina a loro, nella passione semplice e grandiosa per l’uomo.