Una vittoria postuma di Gheddafi, con il governo transitorio libico costretto a firmare lo stesso Trattato con l’Italia voluto nel 2008 dal Colonnello. E’ una contraddizione palese quella che emerge dalla riattivazione del patto bilaterale avvenuta ieri a Roma alla presenza del leader del Cnt, Mustafa Abdel Jalil, e del premier Mario Monti. Anche se più che i presenti, a contare ieri erano soprattutto i due grandi assenti, Muammar Gheddafi e Silvio Berlusconi, coloro cioè che più di ogni altro hanno voluto quel Trattato. Per Arturo Varvelli, Ricercatore dell’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi), “l’Italia avrebbe dovuto segnare la discontinuità, soprattutto a livello di immagine, evitando di riattivare lo stesso trattato del 2008, che tra l’altro ci obbliga a pagare 5 miliardi di dollari in un momento di grave crisi”.
Qual è il significato politico della riattivazione del Trattato di amicizia italo-libico?
E’ un Trattato che mette l’Italia quasi in una posizione di privilegio rispetto alle relazioni con la Libia, anche se il contesto politico è nettamente cambiato. Quando fu sottoscritto nel 2008, dispiacque tantissimo ai nostri partner europei e agli Usa. C’erano dei punti un po’ imbarazzanti, tra cui la gestione degli immigrati nonché le relazioni con la Nato, in cui si preventivava una sorta di patto di non aggressione tra Italia e Libia. Non è chiaro inoltre quali saranno le revisioni di questo trattato, cioè le modifiche al testo del 2008 che sarebbero state pretese dai libici anche se nessuno, tranne il nostro governo, sa esattamente su quali punti. A Tripoli certo fanno molto comodo i 5 miliardi di dollari in 20 anni che il Trattato garantisce loro. Il punto che non mi convince però è un altro.
Quale?
Sarebbe stato interesse dell’Italia segnare una discontinuità d’immagine rispetto al passato. Anche perché non è detto che Jalil rimanga al potere in Libia per i prossimi 40 anni come era stato con Gheddafi, anzi la rappresentatività dell’attuale premier è piuttosto debole. Si tratta di una figura transitoria, e bisognerà vedere quali altre forze emergeranno e quali saranno i loro atteggiamenti nei confronti dell’Italia e degli altri Paesi occidentali.
Sarebbe stato meglio attendere l’insediamento di un governo scelto dai libici?
Il punto non è questo, aspettare era inutile. La questione è che la riattivazione dell’accordo è un segno di piena continuità con l’era Gheddafi, che da una parte ci avvantaggia perché noi eravamo il partner privilegiato. Dall’altra parte però non sapendo chi saranno in futuro i referenti libici non possiamo sapere in che modo percepiranno questa nostra scelta: potrebbero anche giudicarla in modo molto negativo. E non dimentichiamoci inoltre che questo trattato rimane piuttosto oneroso, e lo è ancora di più in un momento di crisi. Ma queste non sono le uniche incognite che gravano sulla firma di ieri.
In che senso?
Il nocciolo essenziale del trattato è vedere se i libici rispetteranno la consegna all’Italia delle commesse previste. Una sorta di partita di giro, in quanto è previsto che il nostro Paese fornisca 250milioni di dollari annui alla Libia. Con questa somma un comitato misto su richiesta dei libici assegnerà i lavori alle aziende italiane presenti nel Paese. Quindi si tratta di fondi che dovrebbero passare dallo Stato italiano ad aziende italiane, per lavori sul territorio libico. Ma è chiaro che se le commesse non sono assegnate, la sostanza cambia notevolmente.
Come si collocherà la politica estera della nuova Libia?
Quello che emerge dai primi segnali è innanzitutto il disinteresse verso l’Africa, che invece era stato uno dei grandi cavalli di battaglia di Gheddafi. Il Colonnello destinava un mare di fondi e di aiuti all’Africa, facendo inoltre entrare numerosi fondi sovrani nell’economia europea. Io ritengo che questo capitolo ora sia chiuso. Sarà molto difficile, per chiunque andrà al potere in Libia, pensare di “sprecare” dei fondi all’estero, quando ci sono da placare diverse esigenze all’interno del Paese. Anche solo per motivi propagandistici, il capitolo degli investimenti all’estero verosimilmente si chiuderà, cambiando così anche le relazioni con gli altri Paesi. L’Italia e gli altri Paesi europei al contrario hanno in mano lo strumento dello scongelamento dei fondi libici all’estero. Una “parsimonia” nello scongelamento dei fondi può essere utilizzato da parte dei governi italiano ed europei come arma per ottenere garanzie politiche ed economiche da parte del nuovo governo di Tripoli.
A due mesi dalla fine di Gheddafi, qual è la situazione interna alla Libia?
Assistiamo a un trionfo delle fazioni, che di tanto in tanto fa scaturire apertamente conflitti a fuoco, ma che soprattutto dal punto di vista politico continuano a frammentare il Paese. Quando è stato catturato Saif al-Islam, il leader della milizia di Zintan invece di riconsegnarlo a Tripoli o a Bengasi, lo ha trattenuto per rivendicare un posto di potere nel nuovo governo, riuscendo a diventare ministro della Difesa. Ogni fazione in questo momento sta cercando di rivendicare verso l’autorità centrale una partecipazione alla gestione del potere. E questo complica notevolmente la situazione.
Come se ne può uscire?
Forse il riavvio della produzione petrolifera potrebbe facilitare una ricomposizione del Paese, perché nessuno ha il vantaggio a mandare tutto a carte quarantotto. Conviene di più stare al gioco, partecipare alla ricostruzione del Paese per arrivare ad avere una parte nelle rendite del petrolio. Jalil ha dichiarato: “Con la caduta di Gheddafi consideriamo finito il debito italiano della seconda guerra mondiale”.
Questa affermazione implica la fine definitiva del capitolo sul colonialismo?
Quello del colonialismo è sempre stato uno dei caratteri principali dell’identità della Libia di Gheddafi. Ora Jalil sembra rinunciarvi, proprio per sottolineare quella discontinuità dal Colonnello di cui c’è tanto bisogno. Cioè un’idea diversa del Paese rispetto a quella professata da Gheddafi. A Jalil però rimane un problema fondamentale.
E sarebbe?
Su quale nuova identità si sta basando la Libia? Quella delle regioni, delle città, delle fazioni, della Senussia, dell’Islam? Su quale denominatore comune ricostruirà l’identità della nazione? Perché l’identità nazionale libica è molto debole, frutto di un’invenzione del colonialismo italiano. Bisogna quindi vedere su quali basi rifondarla. Prevedo quindi che la religione musulmana sarà uno dei fondamenti dell’identità della nuova Libia.
(Pietro Vernizzi)