La Russia è alla vigilia delle elezioni. Domenica 4 dicembre le parlamentari, e in marzo le presidenziali. I risultati sono largamente prevedibili, e i sentimenti dominanti tra la gente sembrano essere indifferenza e scetticismo.

Da mesi i sondaggi in Russia mettono in evidenza una crisi devastante che attraversa il Paese: una crisi di identità personale, di fiducia nella realtà e di un significato superiore a cui dedicare la vita. L’autorevole politologo Boris Dubin, autore di un saggio provocatoriamente intitolato Il malessere come norma della vita sociale, parla di una «società frammentata», in cui gran parte della popolazione (75-80%) si limita nelle comunicazioni quotidiane alla cerchia più ristretta dei parenti e ritiene di non potersi fidare di nessun altro. È sempre più diffusa l’idea che il potere e la politica siano cose sporche, corrotte, dove tutti sono prezzolati o agiscono in base a interessi personali.



Un altro elemento sottolineato dai sociologi è l’orientamento di vari gruppi di popolazione, in primo luogo i giovani – studenti o neolaureati – ad andarsene. Andarsene per sempre, e non semplicemente per trascorrere alcuni anni all’estero in modo da guadagnare un po’ di soldi o completare gli studi. Secondo un sondaggio del maggio scorso, il 28% dei giovani sotto i 35 anni vorrebbe lasciare definitivamente la Russia.



Meccanismi assimilabili al bipensiero alla Orwell – rilevano gli esperti – fanno sì che la gente da un lato sia disposta ad adattarsi a condizioni sempre peggiori, ad assumere atteggiamenti clientelari, servili davanti alla personalità di turno, ma d’altro canto si diffondono i complessi da grande potenza umiliata. Secondo i sondaggi del Centro Levada, ad esempio, circa due terzi dei russi negli ultimi tempi pensano che la Russia sia una grande potenza, e nel contempo ritengono che il paese non occupi nel mondo il posto che gli spetta, o che loro vorrebbero che occupasse; anzi, è diffusa la sensazione di essere nel mirino di un pericolo incombente dall’esterno (di volta in volta gli USA, il terrorismo islamico, le popolazioni del Caucaso, la Cina e così via).



In questo contesto, la violenza si è trasformata in un vero e proprio codice di vita sociale: è il linguaggio in cui oggi parlano i russi, è il modo di trattarsi in metro o o nel traffico di Mosca, un misto di stress, di risentimenti e di rabbia repressa.
Sono questi gli aspetti su cui fa leva il potere, rinfocolando il mito di una «via speciale» riservata alla Russia, in cui l’alterità viene presentata come qualcosa di distruttivo, un’ingerenza violenta nell’identità russa, che resta tuttavia assolutamente indeterminata.

In fondo – osserva a questo proposito Dubin – si tratta di un «meccanismo che ci offre un comodo alibi, escludendo la Russia dalla norma generale, politica, morale, sociale, di civiltà, consentendole un’appartenenza che non implica partecipazione, responsabilità».

Eppure, esiste un’altra Russia, o forse varie Russie, che colgono di sorpresa gli osservatori e lasciano intendere che dietro la diffusa stanchezza della gente si cela molto altro. Solo pochi giorni fa Mosca è rimasta letteralmente paralizzata di fronte allo spettacolo di quasi un milione di persone che nell’arco di una settimana si sono recate alla chiesa di Cristo Salvatore a venerare la cintura della Madre di Dio, una reliquia portata dal Monte Athos, restando in fila per strada anche più ventiquattr’ore nel gelo del precoce inverno.

Paralizzata in tutti i sensi, perché il massiccio afflusso di pellegrini ha comportato la deviazione del traffico nel centro città con tutti gli inconvenienti del caso – ma paralizzata soprattutto davanti allo spettacolo di una religiosità imprevedibile e difficilmente inquadrabile: torbida, confusa, miracolistica, ma certo disperatamente assetata di una risposta. Come se in quei giorni la malattia della Russia fosse venuta allo scoperto nelle sue gigantesche proporzioni assumendo i contorni di un intero popolo, della folla oceanica, a volte litigiosa e violenta ma anche dominata dalla presenza del divino, che ha atteso per ore conquistandosi palmo a palmo la possibilità di sfilare per un istante davanti alla reliquia.

I sondaggi sociologici attestano l’esistenza di un 25-30% della popolazione che non accetta (sia pur in maniera passiva) l’andamento delle cose tacitamente subito dal 70%. Non è una percentuale piccolissima, eppure nessuno sembra farci i conti: probabilmente, anche questo rientra nei giochi del potere.

E infine, c’è una vita cristiana che in questi anni sta crescendo sia in provincia sia nella stessa capitale: comunità vive, che sovente si impegnano generosamente nell’attività catechetica e caritativa, tentano una presenza nel sociale attraverso forme di volontariato, di assistenza ai poveri o agli anziani. Ciò che manca al loro interno, paradossalmente, è il nesso tra l’impegno personale e comunitario, da un lato, e il giudizio sulla situazione generale.

Anche tra i cristiani, le analisi dei problemi che travagliano la società vengono mutuate in qualche modo dalla mentalità laica. Come se ai credenti mancasse l’intelligenza della fede, il riconoscimento che proprio la loro esperienza personale – di novità, di resurrezione – è l’ipotesi di partenza per leggere una realtà umana sia pure molto dolorosa, problematica, impastata di morte.

Sono tutte realtà molto diverse tra loro, ma che lasciano intendere che ripartire è possibile, che esiste una domanda aperta, una ferita dolorosa ma salutare, che vi sono forze vive che hanno bisogno di prendere coscienza di sé e della speranza che, confusamente, già le anima e le mette in moto.