Due autobombe nel cuore di Damasco sono esplose ieri, colpendo due edifici strategici delle forze di sicurezza e provocando la morte di oltre quaranta persone. Alcune fonti vicine al governo (tra cui l’emittente televisiva libanese al-Manar, di proprietà di Hezbollah, fedele alleato del regime di Damasco) hanno lanciato fieri proclami antioccidentali, rievocando ancora una volta la tesi del complotto estero contro Assad. La tv di Stato siriana, tuttavia, ha subito avanzato l’ipotesi che dietro gli attentati di ieri ci sia la mano di Al-Qaeda, non escludendo che “in futuro sanguinosi eventi del genere potrebbero ripetersi”. L’ipotesi terroristica nel bel mezzo della guerra civile in corso tra le forze militari lealiste da un lato e i disertori e i vari gruppi combattenti dall’altro è lo scenario meno atteso e più inquietante tra quelli che potevamo configurarci.



Se davvero c’è la mano terroristica di Al-Qaeda dietro i kamikaze di Damasco vuol dire, infatti, che il regime di Assad non è più in grado di detenere quel capillare controllo delle frontiere e della sicurezza interna che ha costituito la sua principale prerogativa per oltre 40 anni. Vuol dire, cioè, che il regime è diventato debolissimo. Se in qualsiasi circostanza questa sarebbe stata un’ottima notizia per l’opposizione, è però evidente, dopo gli eventi di ieri, quale terribile (se non impossibile) gatta da pelare si ritroverebbe tra le mani chiunque ambisca a guidare la transizione e affermarsi come futura autorità del paese. Allo stesso modo l’attentato di ieri ha materializzato in un attimo quali sfide si imporrebbero a tutti i vicini della Siria, che proprio dalla micidiale efficienza del Mukhabarat  siriano hanno tratto enormi vantaggi per la propria sicurezza interna. A cominciare da quegli Stati che hanno scommesso tutto sulla capitolazione del “Leone di Damasco”: la Turchia, principale sponsor della transizione, e Israele, che del laico dittatore Assad (sia il padre che il figlio) ha necessitato grandemente per mantenere le alture del Golan fuori dall’orbita di terroristi islamici o nazionalisti palestinesi.



Con un paese distrutto e disunito da un conflitto intestino, con forze militari da ricostruire e da render fedeli ad un eventuale nuovo potere politico (impresa assai ardua per una macchina coercitiva rimasta sostanzialmente attorno al regime) è chiaro che il principale problema di una Siria post-Assad sarebbe il ripristino del monopolio della forza, della garanzia della sicurezza, senza la quale – come ci ricordava Max Weber – lo Stato perde i suoi stessi connotati.

Sappiamo bene, per esperienza vicine temporalmente e  geograficamente, come nei contesti di fragile statualità i terroristi sguazzino. La Siria, dunque, proprio come è successo per l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, potrebbe diventare la nuova preda del terrore qaedista. Una realtà che, saldandosi con la tensione interna tra sunniti e sciiti, diventerebbe una bomba esplosiva difficilmente contenibile soltanto all’interno dei confini siriani.



C’è, però, una coincidenza strategicamente sospetta con gli attentati kamikaze di ieri: essi sono occorsi proprio all’indomani dell’arrivo degli osservatori della Lega Araba, inviati in Siria con il proposito di garantire la fine delle violenze tra le due parti del conflitto interno. L’invio degli osservatori era avvenuto dopo un faticoso accordo raggiunto tra l’organizzazione panaraba e il regime di Assad, assediato – di fatto – da un contesto regionale che sembra, con il bene placito degli americani, molto più proteso a sbarazzarsi di lui che a scendere a compromessi.

Gli attentati kamikaze che ieri hanno insanguinato la capitale potrebbero allora essere l’ultima carta che Assad si gioca: un assaggio di uno scenario terribile sia per i siriani sia per gli stati vicini. Tanto per mostrare quello che facilmente succederebbe se si rimuovesse dal quadro geopolitico mediorientale colui che finora ne ha, in larga parte, garantito il sensibile equilibrio.