Il primo turno delle elezioni per l’Assemblea del Popolo (o “Camera Bassa”) ha dato ragione – come, in fondo, ci si aspettava – alle forze politiche islamiste: il 36,6% è andato ai Fratelli Musulmani, il 24,4% ai Salafiti. Male è andata, invece, al blocco liberale: se si fa il computo complessivo dei candidati di questa corrente non si raggiunge nemmeno il 30%. Spazzati praticamente via dalla scena politica sono, poi, i piccoli partiti, molti dei quali nati dal fervore rivoluzionario di Piazza Tahrir. 



Ed è proprio questo il risvolto cinico e beffardo della storia: chi davvero è uscito sconfitto da questo turno elettorale è la gioventù che ha fatto la rivoluzione del 25 gennaio – quella che ha portato alla capitolazione di Hosni Mubarak – ed è ritornata a occupare il cuore del Cairo nelle settimane precedenti la chiamata alle urne, per protestare contro una gestione continuativamente poco trasparente del potere da parte del Consiglio Superiore delle Forze Armate, che detiene il potere ad interim dalla caduta del vecchio raìs.  



La lezione della Tunisia, dove il partito islamista moderato Al-Nahda aveva sbancato alle urne, ci aveva, d’altra parte, già mandato segnali chiarissimi. Ciò che si sta a poco a poco configurando nel mondo arabo rimodellato dalle cosiddette “Primavere arabe” sembra essere una rivincita dell’islam politico, mentre a innescare le intifade sono state le componenti più liberali e moderniste della società (membri delle Ong, bloggers, studenti impegnati, ex oppositori politici).

Ma se è vero che la Storia non sempre premia chi si batte per forgiarla a modo suo, è altrettanto vero dalla Storia non si può fuggire. Nemmeno con una Rivoluzione. Il nuovo assetto politico che si sta definendo in Egitto sembra essere, infatti, proprio la sintesi di tanti e intrecciati fili della storia politica di questo paese. 



I Fratelli Musulmani, che molto probabilmente domineranno in Parlamento e nel Consiglio della Shura, hanno radici molto lontane in Egitto. Nati proprio qui negli anni trenta dal progetto ideologico di Hasan al Banna, gli Ikhwan (“I fratelli”) ebbero un ruolo cruciale anche nella creazione dello stato moderno, nella Rivoluzione degli Ufficiali liberi del 1952. Se i militari, allora, non avessero fatto un accordo con i Fratelli, quella rivoluzione – in molti lo sanno – non ci sarebbe mai stata. Ma Nasser, appena arrivato al potere, decise di mandare in prigione i capi politici del movimento islamista e dichiarare illegale il loro partito. Da allora gli Ikhwan hanno sempre agito nell’illegalità ma con spiccato pragmatismo, facendo “campagna elettorale” informale nelle zone rurali, tra i poveri, nelle madrasse coraniche, raggiungendo con pacchi di riso, olio, pane e Islam le zone dove lo Stato inefficiente non riusciva ad arrivare. 

Diversamente dai Fratelli, i Salafiti, che sono altrettanto popolari in diverse zone del Delta e nell’Alto Nilo, si fanno promotori di un Islam molto più ortodosso e rigido che ha come obiettivo politico quello di ritornare ad un’aurea età del califfato, ad uno Stato islamico fondato integralmente sulla Sharia. 

All’ombra delle querelles politiche degli ultimi giorni ma pur sempre presenti nella forma istituzionale del Consiglio Supremo delle Forze Armate (un’istituzione, non dimentichiamolo, pur sempre superiore – almeno per ora – rispetto al governo) ci sono, invece, i militari. Inscritti nel tessuto politico del Paese più di tutti gli altri, tanto che in molti, compresi alcuni islamisti, pensano che in fondo l’Egitto non possa fare a meno di un presidente militare. Come Nasser, Sadat e Mubarak in fondo.

Nei mesi intercorsi tra la capitolazione di Mubarak e le elezioni, i militari, che pure erano stati legittimati politicamente dalla piazza, grazie al loro strategico proporsi come garanti della rivoluzione, hanno però continuato a perpetrare pratiche autoritarie e poco trasparenti del potere, simili – se non peggiori – di quelle dell’ancien régime. L’obiettivo politico dei militari era (ed è) quello di mantenere un posto di primo piano all’interno del nuovo Egitto, l’unica via che consentirebbe alla “Casta” di preservare gli ingenti interessi economici consolidati durante gli ultimi 60 anni di storia. 

Nel perseguire questo obiettivo, i militari si sono spesso “incontrati” a porte chiuse con gli Islamisti – in particolare i Fratelli Musulmani – che, a fasi alterne, si sono ritrovati più o meno vicini all’esercito, nella ricerca di un compromesso tanto difficile quanto obbligato. I militari sapevano bene che i Fratelli avrebbero stravinto le elezioni. I Fratelli sanno che i militari non si toglieranno facilmente di torno. Il matrimonio ha rischiato nelle ultime settimane di rompersi. A novembre, anzi, erano stati proprio i Fratelli a scendere in Piazza Tahrir contro la Giunta guidata dal Maresciallo Tantawi. Dopo qualche giorno, tuttavia, i capi del partito avevano richiamato rapidamente gli adepti dal caos della protesta, prescrivendo loro di recarsi ordinatamente alle urne e non consentire che le elezioni venissero ancora una volta posticipate. Era forse già il segno del ricucimento della relazione con i militari. Questi ultimi, dal canto loro, hanno capito (forse) che per restare al potere dovranno condividerlo con gli islamisti.  

Molto del futuro assetto dell’Egitto si deciderà all’ora della scrittura della Costituzione, che non avverrà prima di aver concluso i turni elettorali ancora previsti per l’Assemblea del Popolo e i tre turni per il Consiglio della Shura. 

Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha emanato una legge alla fine di ottobre, secondo cui soltanto 20 dei 100 “saggi” che redigeranno il testo costituzionale verranno dal Parlamento. Una misura evidentemente volta a limitare il peso degli islamisti, molti dei quali vogliono fare dalla Sharia la fonte assoluta di legislazione. Nella legge non c’è, tuttavia, prescrizione dei criteri di selezione degli altri 80. È proprio su questo terreno che probabilmente si giocherà un compromesso, verso cui entrambe le parti sono però protese, proprio perché nessuna delle due può fare a meno dell’altra. Almeno per ora. 

E su alcuni grandi temi, come per esempio il futuro della pace con Israele o il legame con gli Stati Uniti, quando la campagna elettorale sarà finita, i militari sono destinati ad avere la meglio. Con il debito pubblico ulteriormente declassato dalle agenzie di rating, proprio nelle ultime settimane, e il dimezzamento delle riserve in valuta estera rispetto ad un anno fa (dovuto al calo drastico del turismo) sarebbe un suicidio alienarsi gli aiuti della Casa Bianca. Quest’ultima, d’altra parte, è una silenziosa sostenitrice dei militari ma, in fondo, anche una finanziatrice storica dei Fratelli. 

Ci si può chiedere cosa resterà di Piazza Tahrir. Poco in termini di rappresentanza istituzionale, questo è certo. Ma Tahrir, come le piazze gemelle del mondo arabo, ha ormai rotto quello spazio della politica che, fino a poco meno di un anno fa, per gli egiziani, come per tutte le popolazioni arabe, era un assoluto tabù. Che siano laici o islamisti, moderati o radicali, i futuri governi falliranno e si ritroveranno in piazza migliaia di cittadini – o forse più – se non saranno in grado di porre come punti prioritari della loro agenda politica la creazione di posti di lavoro, l’implementazione di politiche pubbliche volte alla crescita del paese e alla disgregazione di un sistema prioritariamente fondato sulla corruzione e sul privilegio. In un Egitto in cui l’80% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, questo si impone per necessità sull’identità più o meno religiosa o radicale della nuova classe dirigente politica.